Erano le cinque del pomeriggio di una domenica di fine estate, quando Flora sentì suonare il campanello.
- Ci vado io ad aprire. Disse urlando
per farsi udire dalla madre, mentre scendeva le scale di corsa.
Le piaceva girare, prima la chiave, che era di
solito lasciata nella serratura della vecchia porta, poi la maniglia
di metallo dorato e nell' aprire fare entrare una vampata di aria
nuova insieme alla persona che attendeva all'uscio.
Dall'ombra che si vedeva attraverso i vetri della
porta, aveva capito che era zia Margherita, la sorella minore della
madre. La zia aveva l'abitudine di andare ogni domenica a
trascorrere il pomeriggio nella loro casa, dove era nata e vissuta
finché non si era sposata.
- Ciao Florita! Come sta oggi tua madre?
- Non riesce a camminare bene, sempre per colpa dei
reumatismi! Rispose la ragazza.
C'era una certa intesa tra zia e nipote, quindi non
c'era bisogno farsi domande personali o complimenti, invece tutto
girava intorno alla madre.
Ma prima di attraversare il lungo corridoi e le stanze
buie che portavano al cortile, dove di solito era seduta la madre,
Margherita accarezzava il viso della nipote.
Il patio era fresco perché ci batteva poco il sole e
per le tante piante che c'erano. Alcuni vasi di terracotta erano
appartenuti addirittura ad una bisnonna, che proveniva da una
famiglia di vasai.
- Meno male che sei arrivata. Sono sempre da sola la
domenica pomeriggio, sussurrava la madre, dopo aver salutato la
sorella con un leggero movimento della testa, ma senza alzarsi dalla
poltrona di vimini.
- I nostri mariti hanno l'abitudine di andare al caffè,
il mio a giocare a scacchi, il tuo a carte. E' una vecchia usanza
il fatto che gli uomini escano per conto loro durante le sere di
festa; non è poi così negativo poter chiacchierare in santa pace
noi donne insieme. Disse Margherita mentre prendeva una sedia della
cucina e la portava nel patio.
- Flora è in casa, ma è come non ci fosse, è sempre
in camera a leggere, disse a bassa voce la madre a Margherita,
mentre la figlia preparava in cucina una limonata con un po' di
ghiaccio.
- Ha quasi diciotto anni, è normale che faccia la sua
vita, ma anche a me dispiace un po' che si sia iscritta
all'Università e vada via del paese tra poche settimane. Mi
mancherà, disse la sorella pochi secondi prima che Flora apparisse
portando un vassoio con una brocca di bevanda fredda e tre
bicchieri.
- Vi farò un po' di compagnia. Mi diverto ascoltando i
vostri aneddoti e le storie di una volta, disse la ragazza
lasciando il vassoio sulla fontana di pietra, di cui serviva per
annaffiare le folte piante, di cui la madre quando stava bene si occupava.
Flora sentiva la necessità di volare via di casa, di
conoscere nuova gente, di imparare tante cose e di trovare poi un
lavoro, ma invece per la madre tutto ciò voleva dire abbandonare la
famiglia.
- Non riesco a stare in piedi. Mi duole tutto il corpo.
La notte non chiudo occhio. Mi sa che non guarirò mai da questa
malattia! Diceva la madre con un tono di voce
sempre più languido.
Zia Margherita aveva una gran pazienza. Ascoltava, senza
mai innervosirsi, tutte le lamentele della sorella, poi quando
quest'ultima si era sfogata, cominciava a parlare.
-Vi ricordate quella mattina in cui, alla fine della
messa, mia suocera - sarebbe meglio dire la signora Enriqueta,
altrimenti se mi potesse sentire si arrabbierebbe da morire, dato
che odiava questa parola - rientrò a casa scandalizzata a causa di
Mosen ye-ye, il quale per prima volta aveva sostituito al parroco
improvvisamente malato.
Allora Margherita cominciava a fare il verso alla
signora Enriqueta, facendosi il segno della croce ripetutamente.
- Dove andremo a finire con questo prete giovane, gli ho
visto spuntare i pantaloni jeans dalla veste. Aggiungeva la zia,
imitando la voce della suocera.
Flora e sua madre, ridevano fino alle lacrime.
L'aiuto parroco, Joan Alsina, era arrivato in paese a
metà degli anni sessanta, era il suo primo incarico. Era chiamato da
tutti mossén ye-yé perché faceva delle cose insolite, appunto
moderne per tutti: fumava come un carrettiere, a volte diceva parolacce,
andava spesso al caffè a prendersi un bicchierino di cognac con gli
operai, suonava la chitarra, era sempre circondato da giovani e
bambini e soprattutto aveva fatto amicizia anche con chi non
frequentava la chiesa, come il padre di Flora.
- Pensate la faccia che avrebbe fatto mia suocera nel
vedere Mossén yeyé in vespa, diceva Margherita senza riuscire a
finire la frase perché scoppiava anche lei a ridere.
Tutti in paese, tranne che alcune beate lo rimpiangevano. Alla fine degli anni sessanta era
partito per il Cile, dove voleva rimanerci alcuni anni per aiutare
le classi più deboli. A lui piaceva definirsi prete-operaio, perché
gli stava a cuore la situazione dei lavoratori.
Quel pomeriggio di fine estate del 1973, quelle tre
donne mentre ridevano non potevano immaginar che dopo qualche giorno
ci sarebbe stato un colpo di stato in Cile e che il loro amato Mossén
yeyé, che tanto aveva fatto per la gente del paese e dopo per il
popolo cileno, sarebbe stato crudelmente fucilato dai militari.
Mosén ye-ye
Eran las cinco de la tarde de un domingo de finales de
verano, cuando Flora oyó sonar el timbre. Era el mismo ruido
de siempre, pero aquel día le pareció más estrepitoso.
- Ya voy yo. Le dijo gritando a la madre para que la oyera, mientras bajaba las escaleras.
A ella le gustaba, primero correr la llave, que dejaban en la cerradura de la vieja puerta, luego apretar la manecilla de metal hacia abajo y por fin abrir de par en par, dejando penetrar una ráfaga de aire fresco junto a la persona que aguardaba en el zaguán.
- Ya voy yo. Le dijo gritando a la madre para que la oyera, mientras bajaba las escaleras.
A ella le gustaba, primero correr la llave, que dejaban en la cerradura de la vieja puerta, luego apretar la manecilla de metal hacia abajo y por fin abrir de par en par, dejando penetrar una ráfaga de aire fresco junto a la persona que aguardaba en el zaguán.
Por la sombra, que se veía a través de la puerta
de cristales, se dio cuenta de que era la tía Margarita, la hermana
menor de la madre. Su tía todos los domingos solía ir a pasar la
tarde en el caserón, donde había nacido y vivido hasta el día de su
boda, en el que se mudó a una vivienda cercana.
- ¡Hola Florita! ¿Cómo está tu madre? Le preguntó.
-¡Hoy incluso le cuesta andar, todo por culpa del dichoso reumatismo!
Le contestó la chica.
La tía y la sobrina se entendían bien, por eso no
necesitaban hacerse cumplidos o preguntas personales, todo daba
vueltas alrededor de la madre. Sin embargo antes de cruzar el largo
pasillo, el salón sin luz y el cuarto de estar que daba al patio,
donde por lo general se sentaba su madre, Margarita acarició
delicadamente el rostro de su sobrina.
El patio era fresco, porque casi nunca tocaba el sol y por las plantas tupidas que crecían en grandes macetas de barro cocido, algunas de ellas habían pertenecido a una bisabuela, que provenía de una familia de alfareros.
El patio era fresco, porque casi nunca tocaba el sol y por las plantas tupidas que crecían en grandes macetas de barro cocido, algunas de ellas habían pertenecido a una bisabuela, que provenía de una familia de alfareros.
- Qué bueno que viniste. Siempre me dejan sola los
domingos por la tarde. Le dijo la madre de Flora a su hermana, con
una mueca que quería ser un saludo de bienvenida, pero sin
levantarse del sillón de mimbre.
- Nuestros maridos están acostumbrados a ir al café,
él mio para jugar a ajedrez, él tuyo a echar una partida de cartas.
Es tradición que los hombres salgan sin sus esposas
durante las tardes de fiesta; no es tan negativo si lo piensas bien,
de esta manera nosotras, las mujeres, nos juntamos para charlar un
rato. Dijo eso Margarita mientras tomaba una silla de la cocina y
la llevaba al patio.
- Flora está en casa, pero es como si no hubiera nadie,
siempre lee en su cuarto. Le dijo en voz baja a Margarita,
mientras en la cocina su hija estaba preparando una limonada con un
poco de hielo.
- Tiene casi dieciocho años, es normal que haga su
vida. Pero te entiendo, pues yo también siento que se vaya del
pueblo, para ir a estudiar. La voy a echar de menos. Dijo Margarita
antes de que Flora apareciera llevando una bandeja con una jarra y
tres vasos.
- Voy a haceros un poco de compañía. Me gusta escuchar
vuestras anécdotas e historias del pasado. Dijo la chica dejando la
bandeja sobre la fuente de piedra, que se utilizaba para regar las flores, las cuales la madre cuidaba con esmero, cuando su enfermedad se lo
permitía.
Flora sentía la necesidad de marcharse de aquella casa, para
conocer a gente nueva, para estudiar una carrera y para encontrar luego un empleo, sin embargo para la madre todo esto quería
decir perder a la hija.
- Ya estoy harta que me duela todo el cuerpo. Esta
noche no pude pegar ojo. Yo sé que nunca voy a recuperarme de esta
enfermedad. Declamaba la madre cómo si
fuera una letanía, con una voz que se hacía paulatinamente
lánguida
Margarita tenía mucha paciencia. Nunca se ponía
nerviosa, escuchaba todas las quejas. Aquella tarde,
cuando la hermana ya se había desahogado completamente, comenzó a hablar
-
Os acordáis de la mañana en que, al salir de misa mi suegra -
perdón debería decir, la
señora Enriqueta,
de lo contrario si ella pudiera oírme se enojaría, porque odiaba
esa palabra - entró en casa escandalizada debido a Mossén ye-ye,
quien por primera vez había sustituido al párroco del pueblo, quien
se había puesto enfermo de repente.
A continuación, Margarita empezó a imitar a su suegra, haciéndose santiguándose repetidas veces.
A continuación, Margarita empezó a imitar a su suegra, haciéndose santiguándose repetidas veces.
-
¿A dónde iremos a parar con ese cura tan joven? Le he visto
que le salía el borde de los pantalones tejanos debajo de la sotana.
Añadió Margarita asemejando la voz de la suegra.
Flora y su madre reían con tal regocijo que no lograban decir nada, pues las lágrimas empezaron a descenderles por el rostro, emitiendo sonidos inarticulados y acompañados por sacudidas del cuerpo.
Flora y su madre reían con tal regocijo que no lograban decir nada, pues las lágrimas empezaron a descenderles por el rostro, emitiendo sonidos inarticulados y acompañados por sacudidas del cuerpo.
El sacerdote, Joan Alsina, había llegado al pueblo
a mediados de los años sesenta, era su primer destino. Todo el
mundo lo llamaba Mossén ye-ye porque hacía cosas inusuales, de
hecho modernas para todos: fumaba como un carretero, a veces decía
palabrotas, a menudo iba a la cafetería a tomar una copa de coñac
con grupos de obreros, tocaba la guitarra, siempre estaba rodeado de
jóvenes y niños e incluso se había hecho amigo de los que no
iban misa, como del padre de Flora.
- Pensad en la cara que habría puesto mi suegra al ver
a Mossén Ye-ye en motocicleta. Dijo Margarita, incapaz de terminar
la frase porque entonces también ella se echó a reír.
Todo
el mundo en el pueblo, excepto unas pocas beatas estaba apenado por la ausencia del sacerdote. A finales de los años sesenta se había marchado a
Chile, donde quería quedarse unos años para ayudar a las clases
más bajas. A él le gustaba definirse un cura-obrero,
porque
luchaba para mejorar
la situación de los trabajadores.
Aquel domingo de finales del verano de 1973, esas tres
mujeres, que reían en el patio, no podían imaginarse que al cabo de
pocos días habría un golpe de estado en Chile y que su querido
Mossén ye-ye, quien había hecho tanto por la gente de la aldea y
por el pueblo chileno, sería injustamente fusilado por los
militares.
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