martedì 16 gennaio 2024

Cap. 10 - Nieves Herrera (in italiano)

 


Nieves Herrera rimase incinta all'età di vent'anni, pochi mesi dopo il suo arrivo a Cuba. Quando Ángel Hernandéz scoprì che la moglie aspettava un figlio, si precipitò a L'Avana in cerca di un collaboratore per avviare il progetto che aveva in mente da tempo.
Ritornò da L'Avana felice e quando entrò in casa disse alla moglie:
- Un catalano, un certo Mariano Defaus, ha accettato la mia proposta. E’ un intenditore di cereali e con lui mi sento in grado di trasformare la fattoria. Voglio che nostro figlio, quando nascerà, veda campi di grano e non piantagioni di tabacco.
- E io potrò fare pappe di grano macinato per il piccolo e zuppe di pane per noi, come quelle che mi preparava mia madre, disse Nieves, sorridendo.
A Nieves piacque subito Mariano e anche se era un uomo di poche parole, si sentiva a suo agio con lui, le ricordava Rafael, uno dei suoi fratelli, il più timido e taciturno di tutti. Piano, piano Mariano entrò in confidenza con Nieves e divenne più comunicativo, le raccontò aneddoti della sua infanzia nel suo paese, ma soprattutto lei scoprì le qualità di Mariano quando nacque Angelito, suo figlio. Mariano fin da subito diventò affettuoso con il neonato.
- Tenere in braccio e giocherellare col tuo bambino mi ricorda i momenti che trascorrevo con i miei fratelli. Ero il più grande, eravamo in otto. Me ne andai di casa a diciassette anni, Mariona ne aveva quindici, Joan tredici, Isidro undici, Francisco nove, e le piccole Rosa e Luisa tre e cinque. Sono passati otto anni, ma mi mancano ancora tanto.

- Perché hai lasciato il tuo paese da così giovane?
Mariano rimase senza parole, pensando alla promessa fatta a José Sarrá, ma quella ragazza di Madrid gli infondeva fiducia e mentre cullava il bambino le confessò che era un disertore.
Nieves ascoltò ammutolita le sue disavventure.

- A me mancano molto mia madre e i mie fratelli e pensa che sono a Cuba da poco tempo, invece tu che sei lontano dalla famiglia da otto anni come fai a resistere? Gli domandò lei.

- Mia madre mi scrive una lettera ogni due settimane
- E anche tu le scrivi così spesso?
- Non ogni quindici giorni, ma almeno una volta al mese, non manco mai di farlo.
- Piacerebbe anche a me avere una fitta corrispondenza con mia madre, ma io so a malapena scrivere e lei non sa leggere. Tuttavia, quando è nato nostro figlio, mio marito ha scritto una lettera a mia madre, o meglio al prete della chiesa dove lei va abitualmente a messa, perché lui gliela leggesse. Il sacerdote ancora legge a mia madre le lettere che mio marito via via gli spedisce, ma lui risponde molto brevemente.
- Posso insegnarti io a scrivere.
- So scrivere il mio nome e poco più.
- Sei andata a scuola?

- No, ma una signora della parrocchia che suonava l'organo mi ha insegnato, mi faceva cantare l'alfabeto e su una lavagnetta mi diceva di scrivere le lettere e il mio nome, tutto questo nella sacrestia, mentre aspettavo che mia madre finisse di confessarsi. Da quando Rafael, uno dei miei fratellini, era morto, mia madre si inginocchiava davanti al confessionale due o tre volte la settimana. Le parole del sacerdote placavano il suo dolore, lei doveva inventarsi peccati perché lui la prendesse in considerazione.
- Mi sembra buffo che si sia inventata dei peccati.
- Ti sembrerà strano, ma ciò le faceva tanto bene: quando usciva dal confessionale non parlava più di Rafael, anzi sorrideva e mi elencava a sottovoce i suoi peccati veniali.
- Quali erano i peccati inventati, se si può sapere ?
- Beh, i soliti: bugie, invidia, gelosia, mancanza di pazienza e così via. E poi altri più bizzarri, come aver messo una lucertola a pezzetti nel piatto della suocera brontolona, aver gettato un vaso da notte pieno di orina nel giardino di una vicina di casa che le stava antipatica, aver dato uno schiaffo a una signora arrogante che entrava spesso in negozio, che toccava tutto e non comprava niente, aver messo uno scarafaggio in faccia a mio padre quando faceva un pisolino troppo lungo, aver legato noi bambini disobbedienti a un albero con una corda ... e tante altre cose che non ricordo.
- Che repertorio! Tua madre aveva molta fantasia, ma è stata lei a scegliere il tuo nome?
- Sì, mi ha chiamato Nieves, perché quando sono nata ha visto la mia pelle così bianca che ha subito pensato al racconto di Biancaneve… - Si fermò qualche secondo per poi continuare - Anch'io ho amato questa fiaba, soprattutto la parte finale che conosco a memoria e ti vorrei recitare:

Biancaneve morse la mela e cadde. I nani, allertati dagli animali del bosco, arrivarono alla loro casetta mentre la regina cattiva stava fuggendo. Con grande tristezza, misero Biancaneve in un'urna di vetro. Tutti speravano che la bella fanciulla si svegliasse prima o poi, ma fortunatamente un bel principe che stava attraversando la foresta sul suo cavallo, vide la bella fanciulla nell'urna di cristallo e attratto dalla sua bellezza, le diede un bacio, l'incantesimo fu spezzato e la ragazza si svegliò. Biancaneve e il principe si sposarono e vissero per sempre felici e contenti.

- Questo racconto in catalano si chiama Blancaneus, mia madre lo raccontava alle mie sorelline! Tacque per un attimo e un sorriso gli attraversò il viso - Ángel è il principe che ti ha portato nel Nuovo Mondo!
- Che sciocchezza, io non credo ai principi! Stavo benissimo a Lavapiés con la mia famiglia, Ángel non ha rotto nessun incantesimo.
- Non ti arrabbiare, stavo solo scherzando, disse Mariano.
- Io non ho tanta fantasia come mia madre, sono più realista, assomiglio più a mio padre. Lei, invece, oltre a assumersi la colpa di peccati che non ha commesso, amava inventare storie, osservando e ascoltando la gente della strada. A volte le sue narrazioni prendevano spunto dai racconti della nonna, ma il più delle volte si trattava di pura immaginazione.

- Beh, tua madre ha un buon carattere, da quello che dici, ha trovato il modo di tirarsi su dopo aver perso un figlio. Non so se mia madre sarebbe riuscita a riprendersi da una simile disgrazia.
- Ognuno affronta il lutto come meglio può. Io tendo a buttarmi nel lavoro per non cadere in depressione, rispose Nieves.
- Quando Rafael è morto, tu già lavoravi?
- Sì, fino a dieci anni mi sono occupata dei miei quattro fratelli, anch’io sono la più grande, ma molto presto mi è toccato andare in bottega per aiutare i miei genitori a modellare, cuocere, dipingere e vendere vasellame. Mia sorella, che ha un anno meno di me, cominciò allora a prendersi cura dei più piccoli.
- Ti piace il mestiere di vasaio?
- Sì, molto. Nella bottega ho conosciuto Ángel. Un giorno lui è entrato per comprare una brocca, è ritornato il giorno dopo e quello dopo ancora, mi ha corteggiato per diversi mesi. A Natale ha chiesto a mio padre la mia mano. Lui ha accettato subito, perché Ángel gli assicurava un buon futuro per me. Abbiamo abitato per un anno in una casetta che lui aveva comprato, molto vicina a quella dei miei genitori, finché non è arrivato il telegramma con quella brutta notizia e siamo stati costretti a imbarcarci per Cuba. Da allora non ho mai più cotto un coccio.
- Anche nel mio paese ci sono diversi vasai, in catalano ollers, Io abitavo in via Ollers, ma i miei genitori non erano vasai, bensì agricoltori.

- Quando sarà avviata la coltivazione dei cereali, Ángel mi ha promesso di costruire un forno accanto alla villa e se tu vorrai ti posso insegnare a modellare vasi con il tornio e a cuocere, vasi, brocche, tegami, piatti, piastrelle e qualsiasi altro oggetto che tu vorrai.
Ángel e Mariano
lavorarono instancabilmente per due anni. Ebbero molti imprevisti e problemi, ma insieme cercarono di risolverli, scoprendo che andavano d’accordo e che il progetto di Ángel non era così inverosimile come sembrava. Durante il primo anno riorganizzarono la fattoria, acquistarono animali e attrezzi per lavorare la terra, la semina e il raccolto e costruirono un mulino per macinare il grano e un forno per cuocere il pane. Dopo cercarono acquirenti nei dintorni e soprattutto a L'Avana, dove la vendita di farina era assicurata, grazie alla presenza di molti europei, dato che il pane era il primo alimento che mancava agli spagnoli, francesi e portoghesi quando arrivavano a Cuba.
Nieves era una ragazza allegra e gioviale.
Amava il marito e all'inizio le andava bene qualsiasi cosa lui decidesse, ma accettò mal volentieri il fatto di dover lasciare la sua città e la sua famiglia, poiché aveva sempre sognato una vita tranquilla nel quartiere madrileno di Lavapiés, dove era nata. Quando arrivarono a Cuba, dovette adattarsi a così tante cose nuove che non ci pensò più alla sofferenza che all’inizio aveva sentito per essersi allontanata da genitori e fratelli.

Divenne la signora Hernández, ma lei rimase la ragazza di Lavapiés. Due donne la aiutavano in cucina e nelle faccende domestiche, fu con loro che iniziò a sfornare pagnotte per tutto il personale della fattoria.
Da quando Mariano
era arrivato alla tenuta Esperanza, scriveva meno lettere alla madre, ma quando vedeva che era passato un mese dall'ultima, cercava di farlo. Gli capitava spesso di iniziare una lettera e di lasciarla a metà per il giorno successivo. Anche se ogni sera si sedeva per finire la lettera, non riusciva a scrivere quasi niente, si addormentava da quanto era stanco. Non gli piaceva scrivere lettere brevi alla madre, ma si consolava mentre si diceva che sarebbe stato peggio non scrivere affatto. Una sera, dopo una giornata difficile, in cui uno dei lavoratori si era ferito a un piede con l'aratro e dovette essere portato all’ospedale di Pinar del Rio per fermare l'emorragia, era insonne e iniziò a scrivere una lunga lettera alla madre. L'adrenalina scorreva ancora nel suo sangue e mentre scriveva gli tornò in mente la scena del poveretto che urlava e si disperava, poiché la ferita era molto profonda e avevano dovuto amputargli il piede.

Las Ovas 20 ottobre 1881
Cara madre,
spero che quando lei leggerà questa lettera, tutti in famiglia stiate bene. Anch'io, grazie a Dio, sono in buona salute. Come vi ho detto nella mia ultima lettera, adesso, oltre a essere in società con i tre bottegai di Barcelona, lavoro in una fattoria vicino a Pinar del Rio; mi hanno assunto per la semina del grano. Non dovete pensare che io debba lavorare la terra, devo solo gestire un gruppo di braccianti, non che sia facile comandare tanti uomini e donne, la maggior parte sono neri, ma non sono schiavi. Ángel, il mio padrone, molto tempo fa, diede loro la libertà. Mi occupo anche della contabilità, perché il mio padrone non ne capisce nulla di conti. Il mio lavoro si basa più sulla coordinazione che sulla fatica fisica e finora tutto sta andando bene.
Ángel e Nieves, sua moglie, sono molto gentili con me. Vivo in una piccola cas
etta bianca accanto alla villa. I genitori di Ángel erano molto ricchi, avevano piantagioni di tabacco, ma da quando lui è andato a studiare a Madrid, dove ha conosciuto Nieves, non ha più voluto avere a che fare con il tabacco. Abbiamo diviso la proprietà in piccoli appezzamenti dove coltiviamo cereali a rotazione. Ángel venne a sapere della rotazione quando era in Europa, lui dice, e ha assolutamente ragione, che la terra si impoverisce se si coltivano sempre le stesse piante, bisogna cambiare ogni quattro anni. 
È un lavoro che mi piace molto, perché Ángel mi ha dato carta bianca per il rinnovo delle colture.

Nieves è di Madrid e, come me, sente la mancanza della Spagna. Parliamo spesso del nostro Paese. Ha ventitré anni e un figlio piccolo molto vivace, con cui spesso giocherello dopo cena e mi tornano in mente i miei fratelli.
Il clima
di Pinar del Rio è simile a quello de L'Avana, ma grazie a Dio è più ventilato e si sente meno l'afa. Mangiamo molto bene, abbiamo un orto dove abbiamo piantato melanzane, carote, peperoni, lattughe e pomodori. A volte io preparo una "escalibada" come quelle che faceva lei e mentre la assaporo mi ricordo di voi tutti seduti a tavola in cucina.
Vorrei
ritornare a Malgrat, lo farò appena possibile, forse tra un paio d'anni, adesso che la guerra è finita tutto sarà più facile. Ma, come lei può capire, in questo momento non posso lasciare un lavoro così buono. Devo cogliere l'attimo. Allego alla lettera una foto che mi sono fatta fare a L'Avana. Vi penso sempre. Mi saluti mio padre e i miei fratelli. Ho nostalgia di Malgrat, della nostra casa e di tutti voi. Non so cosa darei per passare un po' di tempo con voi.
Un abbraccio da vostro figlio che vi
vuole bene.
Mariano Defaus Moragas

Nel secondo anno costruirono un forno non solo per i vasi di terracotta, ma anche per la produzione di tegole e mattoni. Gli uomini si occupavano di procurare l'argilla e la legna e di accendere il fuoco, le donne di modellare e cuocere il vasellame. Furono costruite nuove stalle, demolite le baracche e costruite nuove casette per i braccianti, piantarono alberi di alto fusto e seminarono, oltre al grano, mais e patate e quando iniziarono a raccogliere i frutti di quell'intenso lavoro, Ángel Hernández si ammalò.

- Mariano, sto morendo, promettimi che ti prenderai cura di mia moglie e di mio bambino, gli disse Ángel.
- Il medico ha detto che
stai guarendo, che la tua malattia non è sempre mortale, inoltre sappiamo che negli Stati Uniti stanno producendo un vaccino, disse Mariano, per incoraggiarlo.
- Mariano, ho studiato medicina in Europa, anche se non ho mai esercitato, so che molte malattie, soprattutto quelle che
gli spagnoli hanno portato a Cuba, sono mortali. Il vaiolo è una di queste.
- Non
essere così pessimista.
- Il vaccino contro il vaiolo non è ancora pronto a Cuba, lo stanno sperimentando, non prendiamoci in giro, rispo
se Ángel determinato.
- La speranza è l'ultima a morire,
sarà per questo che i tuoi antenati diedero il nome di Esperanza alla fattoria, non credi?
Nieves era molto
preoccupata per la malattia del marito e non riusciva a immaginare una vita senza di lui al suo fianco. Era molto impegnata con il neonato e lasciò che Mariano, l'unico dei lavoratori della fattoria che aveva avuto il vaiolo da bambino, rimanesse al capezzale del marito.
Il vaccino americano non arrivò
in tempo e Ángel morì all'inizio del 1884, sei mesi prima della produzione e distribuzione del vaccino antivaioloso da parte del Centro General de la Vacuna de Cuba. Nella fattoria, il vaiolo provocò anche la morte di un caposquadra, di quattro braccianti, del cuoco e di una manciata di bambini.
La morte di Ángel fu un duro colpo
sia per Nieves che per Mariano. Erano entrambi affranti da quella perdita, ma dopo due settimane, che furono eterne per loro, Nieves reagì e disse a Mariano:
- È inutile piangere e disperarsi, dobbiamo
portare a termine il progetto di Ángel, io devo farlo per mio figlio.
- Ti aiuterò, non ti abbandonerò. Ma i vicini della
fattoria e i conoscenti di Pinar del Río cominceranno a mormorare sulla nostra situazione: una vedova e il socio del defunto marito che vivono sotto lo stesso tetto.
- Non mi è mai importato quello che la gente dice, ma se sei d'accordo, tra dieci mesi potremo sposarci, così nessuno
sparlerà di noi.
Mariano rimase senza parole, non si aspettava che Nieves
gli proponesse il matrimonio. Arrossì e disse:
- Darei la mia vita per te e per il piccolo Ángel. Se pensi che sia la cosa migliore per
voi e per la fattoria, io sono disposto ad accettare tutto ciò che vorrai.
-
Sarà una cerimonia semplice e non siamo obbligati a condividere lo stesso letto.
- Nieves,
io ti voglio bene come una sorella, la mia intenzione è quella di proteggere te e tuo figlio e di realizzare il progetto di tuo marito.

All'inizio dell'autunno del 1884 Nieves Herrera e Mariano si sposarono. Nieves si recò da Mosén Lluís, un sacerdote catalano della chiesa della Consolación del Sur di Pinar del Rio, che conosceva bene la famiglia del marito, per chiedergli di celebrare il matrimonio. Invitarono allo sposalizio tutti i lavoratori della fattoria e alcuni amici. I tre bottegai chiusero per la prima volta il loro negozio de L’Avana e si recarono alla tenuta Esperanza due giorni prima del matrimonio. Anche Miguel e il capitano, sbarcati a L'Avana qualche giorno prima, riuscirono a partecipare. María Plana e Ramón Valls, suo marito, arrivarono all’alba con un carro pieno di carne di vitello e di toro, la migliore della loro azienda, che lasciarono in cucina per l’arrosto del banchetto. Poche ore prima del matrimonio arrivò anche Isabel. Felipe y Olivia sbucarono fuori al momento della cerimonia.

Nieves e Mariano erano felici, avevano riunito tutti i loro amici del Nuovo Mondo, mancava solo la loro famiglia di Malgrat e quella di Madrid. I braccianti della fattoria indossarono i loro abiti migliori per partecipare alla cerimonia, ma molti dovettero rimanere fuori, poiché la cappella era sovraffollata. Nel giardino della tenuta furono allestiti i tavoli e le sedie per il banchetto. Per prima cosa furono cotte alle brace grandi quantità di carne, pesce, verdure, pannocchie di mais e banane, e furono sfornate decine di pagnotte di pane, diverse pentole di fagioli, ceci e riso, poi affettarono formaggi, prosciutti e diversi tipi di frutta tropicale, che venne sistemata in grandi vassoi di terracotta. 

Quando cominciarono ad arrivare gli ospiti furono stappate numerose bottiglie di vino e di rum. I tre bottegai non smisero di bere e di intrattenere gli ospiti con le loro solite battute e fecero tanta baldoria. I lavoratori e la servitù organizzarono canti e balli cubani per gli sposi e per prima volta, dopo l’arrivo della piaga, nella fattoria Esperanza regnò di nuovo il buon umore.




domenica 14 gennaio 2024

Cap. 20 - La finca Bonanza

 


Gabriel fue poniendo la mesa para que desayunaran sus amos y los invitados que acababan de entrar en la finca. Había amanecido sin nubes y la primera luz del día hacía brillar las hojas de los árboles y las plantas del jardín. Gabriel sonreía, pues le gustaba la pareja de recién llegados: Olivia era muy amable y Felipe siempre bromeaba con él y le llamaba compadrito.

- Gabriel siéntate con nosotros, le dijo Mariano.

- Se lo agradezco, me gustaría pero no puedo, pues la cocinera se pone nerviosa cuando le pido que haga platos españoles. Le sale muy bien la sopa de ajo y también el cocido madrileño, pero al girar la tortilla de patatas se le rompe y por eso hoy la quiero hacer yo... no me mal interpreten, no me estoy quejando de ella, la mujer es un portento preparando los manjares de nuestra tierra.

- Déjate de tortilla y quédate con nosotros.

Los cuatro se sentaron risueños bajo la sombra de la parra y Gabriel, después de ir a darle órdenes a la cocinera, se sentó un rato con ellos.

- ¿Ya no vivís en La Habana? Les preguntó Nieves.

- No, nos hemos mudado, dijo Olivia.

- Hemos comprado una finca muy cerquita de aquí, era la sorpresa que hoy os queríamos dar, dijo alegre Felipe.

- ¡No me digas que es la misma de la que os hablé tiempo atrás! Exclamó Mariano, sonriendo.

- Sí, es la finca Bonanza, dijo Olivia.

- ¡Qué alegría! ¡No me lo puedo creer que vayamos a ser vecinos!dijo Nieves.

- Ha sido una ganga, pues la finca estaba abandonada. Sólo hemos podido reformar una parte de la mansión, la que estaba en mejores condiciones, la otra la hemos derrumbado y convertido en un gran patio. También ha sido remodelado el jardín y se han plantado muchos árboles de fruta. Nuestro jardinero y una patrulla de albañiles han trabajado sin descanso. Todavía tenemos cosas por hacer, pero ya podemos instalarnos. Llegamos anoche para quedarnos, les dijo Felipe.

- ¡Qué un pícaro que eres! Si me lo hubieras dicho antes te hubiera ayudado, dijo Mariano.

- ¡Tú ya sabes que a mí me gusta ocultarte las novedades para que cuando las descubras te quedes pasmado! le contestó Felipe riendo.

- Había notado idas y venidas de carros en la finca Bonanza y cuando le pregunté al maestro de obras quién había comprado la casa, me dijo que los dueños eran un matrimonio de La Habana, pero nunca me hubiera imaginado que erais vosotros, les dijo Mariano.

- Ya te conté que mi antiguo amo me pagó por los años de esclavitud y yo pude estudiar, pero quizás no te dije que el año pasado, cuando él murió, me nombró en su testamento, dejándome una buena cantidad de dinero, con ella Olivia y yo podemos vivir holgadamente.

- Para celebrarlo os invitamos a cenar, les dijo Nieves.

- Gracias, aceptamos tu invitación con mucho gusto, le contestó Olivia.

- Esta tarde os quiero presentar a Lucas, el hijo de Isabel, nuestro carpintero. Lástima que ahora no esté, se ha ido al pueblo, al paradero de tren de Las Ovas, para recoger unas piezas madera, les anunció Nieves.

- ¡No sabía que Isabel tuviera un hijo! Le contestó Olivia.

- Nosotros tampoco lo sabíamos, Isabel lo tuvo antes de que yo la conociera, pero lo ocultó a todo el mundo. Se lo crió Rogelia, la mujer que a ella también le hizo de madre, les dijo Mariano.

- Lucas es un magnífico ebanista. Además de dedicarse a la carpintería nos está haciendo dos mesas de caoba ¡Son preciosas! Estamos encantados con él, se ha instalado en la casita blanca, la de Gabriel, les dijo Nieves.

- Lucas es muy buen chico, nos llevamos bien… ahora perdónenme pero tengo que volver a la cocina, se atrevió a decir Gabriel

- ¿Cómo está Isabel? Le preguntó Felipe a Mariano.

- Está bien, ya le tocaba. Un cura le enseñó con paciencia a leer y a escribir. Ahora me envía largas cartas y poco a poco ha ido mejorando su caligrafía y su ortografía.

- ¡Ya me contaréis la historia de Isabel! Cuando la conocí en vuestra boda, me cayó muy bien, les comentó Olivia, sonriendo.

Su rencuentro con Felipe, fue como una recarga de entusiasmo para Mariano. Desde entonces las dos parejas se unieron más, pasando largas veladas juntos. Olivia era muy niñera y le encantaba juguetear con los chiquillos en el patio, mientras Felipe le enseñaba a Ángel juegos de mesa.

El tiempo iba pasando y Ángel a los veinte años se enamoró perdidamente de Eloína, una muchacha de Las Ovas y dejó de jugar a ajedrez y domino con Felipe. Sus futuros suegros, criaban ganado y cuando falleció el viejo contable de su granja, le contrataron a él para que llevara las cuentas.

Mariano dejó que Olivia y Felipe empezaran a ocuparse de la escuela que él había fundado. La pareja además de recorrer la región en coche de caballos, para ir recogiendo a los niños analfabetos, se dedicaba en cuerpo y alma a enseñarles a leer y escribir. Más tarde fundaron una escuela ambulante para adultos que consistía en una carreta llena de libros, una pequeña pizarra y unas tablas de madera con cuadernos y lápices. Al atardecer, cuando los trabajadores terminaban la jornada laboral, la carreta se paraba, cada día en una finca distinta, desmontaba los trastos y los jornaleros se sentaban delante de la pizarra, para aprender a leer y hacer cuentas.

Las familias de los alumnos estaban muy agradecidos con ellos y les regalaban gallinas, cerdos y hortalizas y cuando podían les daban una mano en los quehaceres de la finca Bonanza.

Olivia no podía tener hijos. Fue violada varias veces por los capataces de la plantación y tras dos abortos se quedó estéril.

- Soy una mujer yerma, le dijo un día a Felipe, sollozando.

- Eres una mujer extraordinaria, yo te quiero mucho. No me importa que no tengamos hijos. ¡Hay tantos huérfanos en Cuba! Le contestó Felipe, besándola.

Las dos fincas, Esperanza y Bonanza, tenían una parte de terreno lindante, pero estaban separadas por un riachuelo. La primera contaba con inmensos campos de cereales, un huerto muy grande, establos y corrales, un amplio jardín con flores y plantas tropicales y un bosque en la parte del monte, con palmas reales que llegaban a veinticinco metros de altura, robles, cedros, caobas y plantas de bajo porte. Además de la mansión, que había edificado el abuelo de Ángel, había otras construcciones: la escuela, la ermita, las casas de los jornaleros y la casita blanca. La finca Bonanza era mucho más pequeña, pues tras la guerra un ala de la antigua mansión fue derribada y los pedazos de tierra más fértiles, fueron expropiados por los españoles. El jardinero que les cultivaba el huerto, antes de que ellos llegaran, salvó de los terrenos quemados durante de la guerra, algunos árboles y plantó otros, para que los amos pudieran recoger plátanos, piñas, cocos, aguacates y mangos. Poco a poco la finca Bonanza se convirtió en una tupida selva tropical, sin embargo el jardín y el patio que cuidaba y regaba Olivia era más ralo, con algunas plantas ornamentales y grandes macetas de flores.

Cuándo hacía buen tiempo los dos amigos, durante sus paseos matutinos, iban al riachuelo,  desde donde se llamaban. Año tras año los dos no dejaban de bromear, gritando con las manos cerca de la boca.

- Mariano… ¿Tienes limones?

- Felipe… Tengo matas, pero limones no los he visto, contestaba Mariano.

- No te hagas el tonto, yo desde aquí los veo.

- ¿Tienes vista de lince?

- No me enredes, tú me escondes los limones.

- Ojalá los tuviera, gritaba Felipe.

- ¡No te oigo!

- ¿Estás sordo?

Los años iban pasando deprisa, en la finca Esperanza los niños iban transformándose en adultos sin que los padres se dieran cuenta y poco a poco empezaron a emparejarse con muchachas o muchachos de los alrededores. El primero que se casó fue Ángel, se fue a vivir a la casa de los padres de Eloína, a Las Ovas, pero cada dos por tres iba a visitar a sus padres.

Dos años después de la boda, Mariano fue a la granja de los padres de Eloína, montado en su yegua, para conocer a Eloísa, su primera nieta. Nieves había ido la noche anterior para ayudar a la comadrona, pues el parto se presentó difícil.

Aquella noche Ángel fue a avisar a su suegra que su mujer había roto aguas. Nieves quiso acompañarlo y luego los dos fueron a buscar al médico, pero no lo encontraron pues estaba asistiendo con la comadrona de los blancos a otra mujer que iba de parto. La esposa del doctor les dijo que fueran a buscar a Octavia, la partera de los negros. Octavia vivía con su madre en una una barriada de Las Ovas y cuando Ángel le pidió que le siguiera, se sacó el delantal y se subió al coche de caballos. Ángel y Nieves iban delante y Octavia detrás, el trayecto fue breve y casi no hablaron. Llovía cuando llegaron y Octavia tras lavarse las manos, corrió a la alcoba donde estaba la parturienta.

- La criatura viene de nalgas, dijo Octavia, tras poner una mano dentro del cuerpo de Eloína.

Octavia, era una mujer menuda de pocas palabras que había aprendido el oficio observando a su abuela, una esclava negra que tenía buena mano para los partos difíciles de vacas y caballos.

Eloína empujó y chilló de dolor largas horas sin ningún resultado. Ángel estaba desesperado oyendo los gritos. Su suegra que era una mujer muy delicada y esperaba fuera de la puerta con su marido no le dejó entrar, sin embargo él en un arrebato de exasperación penetró en la alcoba y abrazó a su esposa. Las dos mujeres al cabo de poco, viendo que el hombre estaba muy pálido, le aconsejaron que saliera del cuarto. Mientras Octavia iba tirando las piernas y las nalgas de la criatura, Nieves le daba a Eloína golpes en los carrillos, pues parecía haber perdido el sentido.

- Aguanta mujer, la niña está a punto de nacer, le dijo dulcemente, pero con determinación Octavia.

Eloína recuperó fuerza al oír las palabras de la comadrona y le preguntó casi sin aliento:

- ¿Es una niña? ¿Está viva?

- Sí, está viva, empuja, ya la tenemos aquí.

En aquel momento Octavia extrajo la criatura, que en seguida empezó a llorar. La partera mulata logró lo que pocos médicos hubieran conseguido: la recién nacida salió de las entrañas de la madre sin traumas u otras consecuencias derivadas del largo parto podálico.

Los padres de la niña y los cuatro abuelos lloraron de felicidad al ver aquel ser tan pequeño y tan lindo. Eloína al principio no quería tener más hijo, pues estaba asustada por lo mucho que le costó parir, sin embargo al cabo de tres años todos volvieron a saltar de alegría tras su nuevo embarazo. Octavio nació tan de prisa que Eloína quiso ponerle el nombre de la partera. Andrés, Josefina, Bernardo, Esther, Leonardo y Maria de los Ángeles también nacieron en poco tiempo, pero Eloína quiso siempre que Octavia estuviera a su lado.

Juan, el primogénito de Nieves y Mariano, se casó con Manuela, una chica de Puerta de Golpe y se fueron a vivir a pocos kilómetros de la finca Esperanza. Tuvieron ocho hijos, los cinco primeros fueron niñas, Gudelia, Nieves, Mariana, Esther y Cristina, llamada Cuca. Juan ya no contaba con ello, cuando nacieron dos varones, Enrique y Gilberto. José, el segundogénito, tuvo cinco hijos, primero tres, Joseito, Alfonso, que era muy menudo y todos lo llamaban Chiquitín y Tití que se llamaba Mariano como el abuelo y bastantes años más tarde, tuvo dos niños más con la segunda esposa. También Teresa dio a luz a cinco hijos: Mariano, Emilio, Regino, Pedro y Nena. Las hijas pequeñas de Nieves y Mariano, Ramona y Coltilde, tardaron en casarse y ninguna de las dos tuvo descendencia. Más que una casa la finca Esperanza parecía una guardería, por el patio y el jardín correteaban niños de todas las edades.

Nieves y Mariano estaban muy entretenidos y contentos con tantos nietos, que llegaron a ser veinticinco. Sin embrago también hubo lutos en la familia: María de los Ángeles murió a los siete años por una enfermedad misteriosa de estómago y Caridad, la gemela de Enrique falleció siendo un bebé. Otra desgracia llegó años más tarde: José se quedó viudo con tres chiquillos, Pastora su mujer era muy delicada de salud y murió de fiebres tifoideas. Nieves y Mariano acogieron a José en la finca Esperanza durante unos años, hasta que él volvió a su casa al casarse con una muchacha muy guapa, a la que todos llamaban La Niña y con quien tuvo dos varones más, Armando y Roberto.

Olivia y Felipe disfrutaban haciendo de niñeros cuando iban a la finca Esperanza. A Gabriel también le encantaba jugar con los chiquillos y con paciencia fue enseñándoles a cada uno de ellos a montar a caballo, con los potros enanos que él mismo criaba. Lucas les iba haciendo camitas y tronas para aquel tropel de niños.

Los cabellos de Gabriel iban volviéndose canos, pero él nunca dejó de trabajar en la hacienda. Había nacido en las barracas de los tabacales del abuelo de Ángel y jamás se había alejado de Las Ovas. Se casó con Nélida, la hija de la cocinera y Mariano les entregó a los esposos las llaves de la casita blanca donde él había vivido los primeros años. Gabriel se quedó viudo muy pronto, su mujer falleció dando a luz a un niño muerto. Cuando llegó Lucas, Gabriel lo acogió en su casita blanca. Lucas se había acostumbrado a estar escondido y cuando se retiraron los españoles y él dejó de ser un fugitivo, no quiso marcharse de la finca. Cada mañana bajaba a su taller de carpintería, el olor de madera le daba buen humor y se ponía a trabajar con esmero. A los treinta años se echó una novia, con quien un año más tarde se casó y se llevó a vivir a la casita blanca. La chica, una hermosa mulata, vivió poco tiempo con Lucas, pues se fugó con un forastero, un vendedor ambulante. Gabriel y Lucas se quedaron solos en la casita y en lugar de desesperarse por su mala racha, se hicieron más amigos y se volcaron con entusiasmo a los cuidados de habitantes de la finca. Los dos ayudaban a organizar las fiestas y participaban de buena gana en ellas, convirtiéndose en verdaderos miembros de la familia Defaus-Herrera.

Cuando se agrupaban todos para un almuerzo o una merienda no fallaban nunca Felipe y Olivia. Una tarde, Enrique, uno de los nietos de Nieves y Mariano le pidió a Felipe:

- Cuéntanos una hazaña de la guerra de independencia.

Felipe les contó a los niños que antes de conseguir la independencia, Cuba había logrado abolir la esclavitud a un caro precio para los negros, pues durante la Grande Guerra los esclavos de las plantaciones lucharon en el bando de los separatistas que prometían libertad e igualdad, pero ellos nunca consiguieron nada, pues la mayor parte de ellos cayó en el frente o fue asesinado brutalmente por los españoles, como represalia.

- ¡Esa sí que fue una gran injusticia! declaró Mariano.

- Os quiero hablar de la muerte en el campo batalla de los dos grandes líderes cubanos, Manuel de Céspedes y José Martí, para que entendáis que los conflictos armados no llevan a ninguna parte, les dijo Felipe.

Cuando ese día Felipe terminó de narrar los episodios bélicos, se levantó y con un gesto teatral dijo:

- De jóvenes vuestro abuelo y yo fuimos revolucionarios pacíficos y caminábamos por las calles, comiéndonos el mundo. Estábamos convencidos de que el futuro estaba en nuestras manos, de que nuestros actos del presente crearían el porvenir de mañana, pero no admitíamos de ninguna manera que se derramara sangre. Díselo Mariano… diles que queríamos la independencia sin guerras.

- Otra cosa por la que luchábamos Felipe y yo era por la igualdad entre blancos y negros. En nuestra familia lo hemos conseguido, por vuestras venas corre sangre negro y yo estoy muy orgulloso de ello, les dijo Mariano.

- Por la mías corre sangre aún más negro, les dijo Felipe estallando en una carcajada.