lunedì 30 ottobre 2023

Felipe (in italiano)- Cap 6

 


Nei giorni in cui Mariano non era impegnato a lavorare in farmacia, andava a passeggiare per il centro della città per poi recarsi in Plaza de Armas. Le strade erano affollate di gente che andava e veniva, a piedi, a cavallo, sui muli o sui carri, ovunque c'erano venditori ambulanti che urlando offrivano la sua merce: dolci, frutta, polli, uova, polpi, ecc.

Ogni settimana che passava Mariano sentiva di poter fidarsi di più di Felipe e un giorno cominciò a parlargli delle sue angosce:
- Da un lato sono contento di essere a Cuba, dall'altro vorrei fuggire per tornare in Spagna.
- Vedrai che piano piano ti adatterai a L'Avana, ma per molto tempo continuerai a sentire la mancanza della tua famiglia e della tua terra. So cosa si prova ad essere sradicati all'improvviso, quando ancora si è un ragazzo, disse Felipe.
- Il signor Sarrá mi ha accennato delle tue disavventure, ma quando è che sei arrivato a L'Avana?
- È meglio che te lo racconti dall'inizio, disse Felipe.
- Ti ascolto volentieri.
- Quando avevo dodici anni fui strappato alla mia famiglia e deportato in una zona della costa sulla foce del fiume Congo; passai molti giorni rinchiuso in una prigione su un'isola di cui non ho mai saputo il nome. Poi sono stato venduto a un negriero. Ho fatto un viaggio lunghissimo, durante il quale siamo stati ammassati e incatenati nella stiva della nave e alcuni dei miei compagni di sventura sono morti. Ci trattavano come animali, ci davano poco acqua e cibo. Ho resistito miracolosamente bevendo le mie urine. A Cuba, sono stato comprato da un proprietario terriero che possedeva una grande piantagione di tabacco, vicino a Viñales ... Il mio padrone era molto ambizioso, continuava a ingrandirsi e a comprare manodopera ai mercanti di schiavi, voleva accumulare una gran fortuna. Aveva lasciato il suo villaggio sulla costa catalana molti anni prima, povero in canna e si era messo in testa di tornare ricco, per farsi ammirare da tutti. Ma suo figlio maggiore era molto diverso, mi insegnò a leggere e scrivere di nascosto. Quando il padrone morì, il figlio vendette la sua parte di proprietà al fratello e mi diede la libertà. Ci trasferimmo insieme a L'Avana nel 1870, lui sposò una bella mulatta e mi pagò gli studi primari in una scuola clandestina, visto che a noi neri non era permesso di studiare; mi pagò anche un indennizzo per tutti gli anni di schiavitù. Fu lui a presentarmi il signor Sarrá, i due erano molto amici e parlavano catalano tra loro. Pensavano che io capissi solo lo spagnolo, ma io ascoltavo e imparavo sempre nuove parole della vostra lingua. In quel periodo, leggendo e ascoltando i due catalani, ho iniziato a capire la situazione politica di Cuba. Con i soldi che mi ha dato il figlio del mio ex padrone ho comprato una carrozza e due cavalli ed eccomi qua.
- È incredibile che tu sappia così tante cose e che addirittura conosca il catalano, ne sono emozionato.

Al ritorno Mariano gli disse:
- Grazie Felipe, da quanto ti frequento non ho più l’idea fissa di ritornare in Spagna. Nonostante quello che hai sofferto sei gentile con tutti, al tuo fianco le mie angosce svaniscono.
- La mia filosofia di vita è di apprezzare ciò che ho e di non sentirmi infelice per tutto ciò che gli altri hanno più di me, ma allo stesso tempo vorrei che non ci fossero così tante disuguaglianze. Mi circondo di persone che amano la vita e sto lontano dai conflitti e da tutti coloro che sono egoisti e malvagi.
- Tu parli di stare lontano dai conflitti, ma da quello che mi dici sei un simpatizzante di Carlos Manuel de Céspedes: andresti a combattere per una causa nobile come quella dei separatisti?
- Appoggio la causa di Céspedes, ma vorrei che lui raggiungesse il suo obiettivo di forma pacifica. Hai letto il suo emozionante discorso dell'ottobre 1868, in cui proclamava la libertà per tutti gli schiavi?
- No, ma mi piacerebbe farlo.
- Te lo porterò.
In quel periodo Mariano cominciò a dormire di più e all’alba non si svegliava di soprassalto. Il ricordo dell’appuntamento del lunedì lo allontanava dai suoi pensieri cupi e quando all'imbrunire vedeva apparire nella Plaza de Armas la carrozza di Felipe, era felice sentendo la sua voce che diceva:

- Dai vieni, andiamo a fare un giro.
Un giorno Felipe gli portò il Manifesto del grido di Yara, quella stessa sera Mariano lo lesse attentamente e il lunedì successivo disse a Felipe:

- Mi è parso di capire che tra i principali obiettivi indicati nel documento vi siano il raggiungimento della totale indipendenza dalla Spagna e la graduale abolizione della schiavitù in cambio di un indennizzo da concedere via via ai proprietari terrieri. È molto nobile da parte di Céspedes aver dato un'immediata applicazione pratica alla dichiarazione, concedendo la libertà ai suoi schiavi e invitandoli a unirsi alla lotta su un piano di completa uguaglianza con i bianchi, ma le sue idee pacifiche sono scomparse. Mi sembra che il testo non lasci dubbi sul fatto che gli obiettivi debbano essere perseguiti attraverso la guerra. Temo che i poveri schiavi saranno quelli che soffriranno di più e che sarà difficile per Céspedes raggiungere nella sua lotta la completa uguaglianza tra bianchi e neri.
- Questo è esattamente quello che temo io. Sono passati più di cinque anni dalla rivolta di Céspedes. Ci sono stati molti morti, ma la maggior parte erano e continueranno a essere di pelle nera, disse Felipe.
- Mi piacerebbe sapere di più su Céspedes.
- Mariano, per conoscerlo forse dovresti leggere le sue poesie, te ne voglio recitare una che mi piace in particolare:

Forse il destino che costruiamo
è quella pietra spinta in salita
Dove la parola scivola di nuovo
Ai piedi del prossimo poeta

Forse ciò che realizziamo spingendo la pietra
È l'etern
o decifrare del passo dimenticato
Dove troveremo le chiavi precise
Così che un giorno la roccia prenderà il suo posto sulla cima.

- Nemmeno io capisco come un poeta abbia potuto prendere le armi. Tutti dicono che è una causa nobile, certo che lo è, ma io continuo a pensare, come te, che debba essere raggiunta in modo non violento, disse Mariano.

- Spero che in futuro si possa raggiungere, replicò Felipe.
Mariano si sentiva sempre più a suo agio con Felipe, lo considerava un amico. Nessuno sapeva l'età esatta del cocchiere, forse non aveva ancora compiuto vent'anni, ma la sua saggezza era quella di un uomo che aveva vissuto molto. Felipe era intelligente e determinato, ma umile allo stesso tempo. Infondeva a Mariano fiducia e serenità perché percepiva il suo interesse per tutti gli esseri umani, ma, come aveva promesso al farmacista, quella volta non gli confessò che era un fuggiasco.
I giorni, le settimane e i mesi passavano velocemente, senza che Mariano si rendesse conto che stava per arrivare l'anno 1874, lui non si era ancora abituato al caldo inverno dei tropici. Trascorse le feste di Natale in casa del farmacista. La sera del 31 dicembre, si incontrò con Felipe in Plaza de Armas e per la prima volta i due amici parlarono d’amore.
- Hai una ragazza? Spero di non essere stato indiscreto con questa domanda.
- Beh, ci sarebbe una ragazza, Maria, ma non è ancora la mia fidanzata.

- Io invece ho Olivia, la sua pelle è nera come il carbone, adesso si trova in una piantagione di Viñales. Purtroppo è ancora una schiava, ma spero che presto diventerà libera. Non ti piacciono le donne cubane?
- Le donne cubane mi mettono suggestione. Per adesso mi sto scrivendo con María, la cameriera della Señora Valls, una ricca donna catalana che viaggiava col marito sulla mia stessa nave. Maria assomiglia un po' a mia sorella maggiore, hanno lo stesso nome, è molto carina e ha un buon carattere. Mi scrive che si sente sola, circondata da vasti terreni agricoli e da allevamenti di bestiame e che non va molto d'accordo con la sua bisbetica padrona. Vorrei andare a trovarla, vive in una fattoria a Soroa, a sud-ovest de L'Avana.
- In primavera ti accompagnerò alla fattoria dei signori Valls. E un altro giorno possiamo andare a Viñales, sto cercando di comprare Olivia al figlio del mio ex padrone. Finora non ci sono riuscito, sebbene abbia trovato un uomo bianco come intermediario, non c'è niente da fare, non vogliono vendermi Olivia.
I due amici salutarono il nuovo anno, dall'altra parte della baia, fumando una sigaretta e guardando il mare e la città in lontananza.
All'inizio di marzo Felipe sparì, la sua carrozza non si vide più in Plaza de Armas. Mariano ci rimase male e cominciò a chiedere di lui agli altri cocchieri, ma nessuno di loro seppe dargli alcuna risposta. Temette che avesse avuto un incidente, ma presto si rese conto che la sua scomparsa era collegata alla morte di Céspedes, avvenuta il 27 febbraio 1874.
- Non devi preoccuparti per Felipe, lui sta bene e presto si metterà in contatto con te. Lui sa cosa fa. Secondo me ha fatto bene a sparire, visto che, a causa delle sue idee politiche, all'Avana era in pericolo, disse il signor Sarrá.
- Felipe non mi ha mai svelato quali erano i suoi piani, ma credo che adesso, dopo la caduta di Céspedes, lui cercherà di combattere pacificamente per la libertà di Cuba, disse Mariano.





giovedì 26 ottobre 2023

El testamento - Cap. 14

 


Tras la declaración que le hizo Mariano a Nieves de sus sentimientos y expectativas, en la finca Esperanza creció el buen humor. Un atardecer de primavera Marido y mujer, por primera vez fueron al Teatro Milanés de Pinar Río, a ver la obra, Don Juan Tenorio, de José Zorrilla, que una compañía española representaba.

- Nieves, no te olvides jamás del año 1893: en Pinar del Río, fue inaugurada la primera planta eléctrica. Mira que iluminación tan bonita tiene el teatro, el alumbrado ya no es a gas sino eléctrico.

- Yo me acordaré del año1893, porque tú me declaraste tu amor, le dijo besándolo.

- Sabes que desde que salí de mi pueblo no había vuelto a ver una pieza teatral, le dijo al oído, mientras desde su palco veían en el escenario que Don Juan raptaba a Doña Inés.

Cuando salieron del teatro Nieves le dijo:

- Si nos naciera una niña me gustaría llamarla Inés y si fuera un niño Juan.

- Estoy de acuerdo con Juan, pero si es una niña, va a llamarse Teresa, como mi madre.

- Lo hombres tenéis que mandar siempre, pero esta vez te lo concedo, pues a mí también me gusta el nombre de Teresa.

Otro atardecer fueron a cenar al Café Restaurante La Perla, un local renombrado que se había inaugurado en la ciudad diez años atrás, donde a ellos jamás se les había pasado por la cabeza entrar.

Mariano en aquella ocasión le contó a Nieves que muchos años atrás se quedó boquiabierto de admiración al entrar por primera vez en el restaurante de Barcelona, Les set portes.

- Yo también me quedé como tú con la boca abierta de tanto esplendor, cuando Ángel me llevó a comer un cocido al restaurante LHardy de Carrera de San Jerónimo en Madrid.

La pareja de enamorados en aquella época empezó a salir más de la finca y por consiguiente se hicieron amigos nuevos. El niño Ángel, que ya había cumplido doce años, se quedaba a gusto en casa y pasaba las veladas leyendo o jugando a cartas con Gabriel y Lucas.

Sin embargo en toda la isla iba aumentando la incertidumbre y el miedo de que estallara otra guerra.

José Martí, después de haber convencido a Maceo y a Gómez, ambos exiliados en el extranjero, a unirse al PCR, dedicó una ardua labor en el extranjero, para recaudar recursos y aunar voluntades para la gesta libertaria cubana, que duró casi tres años. En abril de 1895 José Martí y sus aliados zarparon hacia Cuba y desembarcaron cerca de Baracoa. Su llegada fue acogida con júbilo por el pueblo y muchos campesinos se unieron a ellos. El poeta la llamó La Guerra Necesaria. Reclutaron a 40.000 hombres y se dirigieron hacia el oeste, donde el 19 de mayo se enfrentaron por primera vez al ejército español, en un lugar llamado Dos Ríos.

El primer día que entró en combate José Martí fue tiroteado y asesinado en el campo de batalla, mientras dirigía una carga suicida hacia las líneas enemigas. De haber sobrevivido, con toda seguridad hubiera sido elegido presidente de Cuba, pero tras su muerte se convirtió en héroe y mártir.

A pesar de las penurias de la guerra recién empezada, en 1895 en la finca Esperanza destallaron los fuegos artificiales por el nacimiento de Juan, el primer hijo de Nieves y de Mariano. Cuando Teresa Moragas y José Defaus leyeron el telegrama de su hijo que les anunciaba el nacimiento de pequeño Juan Defaus Herrera saltaron de júbilo.

La guerra de Cuba no daba tregua, Gómez y Maceo, conscientes de los errores cometidos durante la Guerra de los Diez Años, marcharon hacia el oeste, arrasando y quemando todos los campamentos y cuarteles españoles que encontraron a su paso. Las primeras victorias condujeron a una ofensiva continua y en enero de 1896, Maceo penetró en Pinar del Río, mientras Gómez resistía cerca de La Habana. Precisamente cuando Maceo estaba entrando en Pinar de Rio, en la finca Esperanza, Nieves dio a luz a José, su segundo hijo.

Cuando Teresa leyó el telegrama que anunciaba el nacimiento de José Defaus Herrera sintió una gran alegría. Su marido que acababa de cumplir setenta años, no demostró el júbilo que ella esperaba.

José Defaus Ballesté, se había ido entristeciendo, llevaba tiempo sintiendo los achaques de la vejez y estaba asustado porque presentía una muerte cercana. Poco a poco perdió el apetito y empezó a salir menos de casa. Tras la insistencia de su mujer, fue a la Notaría para redactar testamento.

Teresa hacía tiempo que sufría en silencio, pensando en que a los tres hijos que estaban fuera de casa les tocaría bien poco de herencia, pero no osaba hablar de ello con su marido, pues

él era el amo de todo, ella no poseía nada. Sin embargo cuando él empezó a decaer y a comentar que ya había llegado la hora de hacer testamento, Teresa se atrevió a decirle:

- A Mariano, Isidro y Mariona deberías darles algo más de legítima.

- Pero mujer, yo estoy siguiendo la ley.

- Déjate de leyes José y dales más bienes.

- Los tres se han abierto camino en la vida, no necesitan nuestro dinero. Sobre todo Mariano que, casándose con Nieves se ha convertido en un terrateniente.

- Mariano no es el amo, es Nieves la dueña de todo. Lo mismo le pasa a María, la vivienda es de Agustí y piensa en que el pobre Isidro vive en una casucha de alquiler. Isidro es el que más lo necesita. A todos les iría bien una bolsa de monedas. La vida da muchas vueltas y no se sabe lo que les puede suceder.

- Bueno, mujer, haré como dices tú: Francisco será mi heredero universal, tú serás la usufructuaria de todos mis bienes y los demás hijos recibirán una buena legítima ¿Qué te parece dos mil quinientas pesetas?

- Ahora sí que estás actuando bien, pero quizás a Isidro tendrías que dejarle algo más, a él le hubiera tocado ser el heredero universal sino lo hubiéramos enviado a la mar, le dijo Teresa.

- Déjate de historias, mi heredero es Francisco.

- No quiero discutir contigo, pero tienes que reconocer que a Isidro lo hemos tratado peor. Por eso para poco por aquí, creo que está resentido con nosotros.

- Yo estoy tranquilo, le hicimos un favor, alejándolo de la mala vida.

- La última vez que vino me dijo que se sentía la oveja negra de la familia, pero esperemos que le vaya pasando todo ese resentimiento. Con su oficio de botero no creo que se haga rico.

- ¡Tú siempre tan exagerada! Verás que Isidro va estar contento con su parte de herencia.

Teresa estaba preocupada por Isidro y durante algunos días dejó de pensar en Mariano, pero pronto, escuchando la radio, se enteró de que al otro lado del Atlántico había empezado una nueva guerra y de nuevo se angustió. Las noticias de Cuba llegaban distorsionadas. Teresa no llegó nunca a entender lo que realmente estaba sucediendo en la isla.

Mientras en Cuba los españoles respondían con fuerza y atrocidad a los ataques de Maceo y Gómez y empezaban a adoptar tácticas brutales para limitar los movimientos de los rebeldes y debilitar la resistencia clandestina (los campesinos fueron recluidos en campos de concentración y todo aquel que apoyó la rebelión fue ejecutado), en España, por el afán de no perder la colonia, crecía el patriotismo y el apoyo a la guerra. El 7 de diciembre de 1896, los rebeldes sufrieron un duro golpe militar cuando Antonio Maceo fue asesinado al sur de La Habana al intentar escapar hacia el este.

Para entonces, Cuba estaba sumida en el caos: miles de personas habían fallecido, el país estaba en llamas. Fueron meses terribles. A finales de 1897, el gobierno español se encontró con las arcas vacías y con un ejército agotado por las enfermedades tropicales y la resistencia de los rebeldes. Sin embargo, las tropas leales a España seguían controlando todas las ciudades, puertos e infraestructuras vitales de Cuba. El gobierno de los Estados Unidos reclamaba que la guerra afectaba sus intereses y le exigió a España reformas para lograr la paz, pero aquella guerra no parecía tener fin al no conseguir derrotar totalmente a los rebeldes.

En enero de 1898 el acorazado Maine fue enviado a La Habana para proteger a los ciudadanos estadounidenses. La tarea nunca se llevó a cabo: el 15 de febrero de 1898 el Maine explotó inesperadamente en el puerto de La Habana y murieron 266 marineros. Los españoles afirmaron que había sido un accidente, los estadounidenses culparon de la bomba a los españoles, y algunos cubanos acusaron a los Estados Unidos de utilizarlo como pretexto para intervenir. Pese a las distintas investigaciones de los años siguientes, el auténtico origen de la explosión es tal vez uno de los grandes misterios de la historia. Tras el desastre del Maine, los americanos ofrecieron 300 millones de dólares a España por Cuba y cuando este acuerdo fue rechazado, estalló la guerra.

Los estadounidenses hundieron los barcos españoles en sólo cuatro horas frente a la bahía de Santiago de Cuba. La única batalla terrestre importante tuvo lugar el 1 de julio de 1898, cuando el ejército americano atacó posiciones españolas en la colina de San Juan, al oeste de Santiago de Cuba. Pese a ser muchos menos y contar con armas limitadas y anticuadas, los españoles asediados resistieron dos semanas, fue el principio del fin para los españoles, que tuvieron que rendirse incondicionalmente ante los americanos el 17 de julio de 1898.

Mientras España perdía Cuba, José Defaus Ballesté se estaba muriendo en su casa de Malgrat sin poder despedirse de los tres hijos que vivían fuera del pueblo. Su muerte fue rápida, un atardecer tuvo un infarto que lo dejó inmóvil en la cama durante veinticuatro horas, su esposa, su hijo Francisco y su nuera no lo dejaron ni un sólo momento, ni de día ni de noche. En su agonía Teresa le repetía sin cesar que Mariano, Isidro y María iban a llegar muy pronto.

José fue consciente hasta el final y encargó a su mujer que, en cuanto llegaran, abrazara de su parte a los hijos y que les entregara los bienes que había dispuesto para ellos.

- Francisco, cuida de tu madre, de tu mujer y de tus hijos, ahora eres tú el cabeza de familia.

- Lo haré, confíe en mí, padre.

- Gracias Teresa, por el amor que me has dado y por haber dedicado toda tu vida a mí y a nuestros hijos. Sin ti no habría sido un padre justo, ni un marido fiel, ni un buen cristiano, hubiera sido un don nadie.

- No digas eso que me haces llorar, le contestó Teresa acariciándole la cabeza.

- Pero antes de morir quiero confesarte algo que hice y que quizás no lo hubieras aprobado. ¿Podéis dejarnos solos unos minutos?

- Claro padre, le dijo Francisco, saliendo de la habitación con Teresita que empezó a llorar.

- No te vas a creer lo que te voy a revelar.

- ¡No te esfuerces en hablar! Me da igual saberlo o no saberlo.