Il postino era arrivato cantando, Francesca sentì la
sua voce dalla finestra aperta. Quella mattina doveva andare al
lavoro più tardi del solito, per questo decise di cominciare la
giornata lentamente. Quindi sarebbe andata a prendere il giornale e
il pane dopo aver fatto colazione.
La sua era una vita tutta di corsa tra ufficio e casa.
In realtà si occupava di ben due abitazioni, la propria e quella di
una zia ottantenne del marito che non si era mai voluta sposare. La
zia abitava al primo piano di una palazzina ottocentesca. Quasi tutte
le mattine andava a fare la spesa, poi si cucinava un piatto di
pastasciutta piuttosto piccante, perché diceva che i peperoncini
allungavano la vita. Faceva la siesta e nel pomeriggio ascoltava la
radio mentre faceva la calza. Aveva tre gatti che lasciavano pelo
dappertutto. La vecchia zia, vedendoci sempre di meno, non riusciva a
tenere in ordine la casa, ma non ne voleva sentire parlare di aiuti
domestici o badanti. Non aveva perso l'aria da maestrina, le piaceva
spiegare minuziosamente ai nipoti le notizie o curiosità che aveva
sentito alla radio o visto alla televisione. Francesca l'aveva quasi
convinta a far pulire l'appartamento da una vicina di casa che era
rimasta vedova da poco e doveva arrotondare la magra pensione, ma
per il momento, quando c'era bisogno, lei e il marito correvano da
una casa all'altra.
Vi chiederete se Francesca quella mattina non fosse
curiosa di sapere se c'era posta per lei. In realtà le era sempre
piaciuto scrivere e ricevere lettere da amici o dalla madre, ma da
quando questa era mancata, non ne riceveva più. Con gli amici
manteneva corrispondenza esclusivamente via mail, quindi negli
ultimi tempi la sua posta si limitava ad annunci pubblicitari.
Nonostante sapesse che era una cosa quasi impossibile, mentre
scendeva pensò che le sarebbe piaciuto ricevere una lettera, ma
quando fu in fondo alle scale, preferì non aprire la cassetta e
farlo dopo, rientrando a casa.
Nella cassetta trovò, tra le solite bollette, una busta
bianca senza mittente. Non riconobbe la calligrafia, ma dal
francobollo e dal timbro postale capì da dove proveniva.
Salì di corsa le scale fino al secondo piano, aprì
la porta e lasciò sul tavolo la busta della spesa e, senza nemmeno
levarsi il cappotto, si sedette sul divano del soggiorno e lesse:
Cara
Amica,
dopo
tanti anni ci siamo incontrate nella tua città. Sono contenta di
aver avuto il coraggio di scriverti per fissare l'appuntamento.
In
tutto questo lungo tempo in cui non ci siamo viste, sono successe
tante cose. Il nostro incontro è stato troppo breve. Che belle
risate ci siamo fatte, raccontandoci aneddoti dell'infanzia! Ma
abbiamo parlato ben poco della nostra vita di adulte.
Perché
non abbiamo mai trovato il modo di incontrarci ogni volta che tu
ritornavi? Lo venivo a sapere da mia madre che vedeva la tua, ogni
sabato pomeriggio, dal parrucchiere. Posso immaginarle a parlare,
fitto fitto, mentre erano sotto il casco ad asciugarsi i capelli.
Le
altre donne, con i bigodini in testa si sentivano spavalde. Mi sembra
di sentire una delle signore che chiede a mia madre con tono
insolente:
-
Quando hai detto che saranno le nozze di tua figlia col quel
fidanzato di famiglia nobile?
Mia
madre, pur di fare bella figura, riusciva sempre, con varie scuse, a
rimediare dicendo:
-
Il mio futuro suocero ha gravi problemi di salute, di matrimonio se
ne parlerà il prossimo anno.
Non
so come mai facevo così, in quel periodo avevo bisogno di apparire,
volevo vedermi fotografata insieme a un uomo famoso nelle riviste di
cronaca rosa. Mi intrufolavo dappertutto, bastava ci fossero giovani
rampolli. Qualche volta sembrava che il fidanzamento stesse andando
bene, ma poi andava a rotoli. Sì, da allora ho cominciato a mentire
alla grande.
Già
da piccola avevo il vizio di dire bugie, mi viene in mente una volta
che siamo andate in gita in montagna, con un'associazione
escursionistica. Avremo avuto tredici o quattordici anni. Credo di
conservare ancora una fotografia: noi due in primo piano con i volti
infreddoliti, coperte con giubbotti fuori moda, berretto di lana,
pantaloni corti di velluto e calzettoni fino al ginocchio, sullo
sfondo gli zaini appoggiati per terra vicino a un affioramento
roccioso. Noi ragazze di mare eravamo imbranate nel maneggiare sacchi
a pelo e tende, forse in realtà eravamo un po' spaesate.
Ti
ricordi del giorno del nostro arrivo? E della scolaresca di Milano
che abbiamo incontrato? Erano sistemate accanto a dove noi dovevamo
piantare le tende, vicino la casa rifugio dove si mangiava e si
andava in bagno. Che freddo che abbiamo patito!
Sicuro
che ti sei accorta che una notte di nascosto sono andata a dormire
nella tenda delle milanesi. Avevo come sempre esagerato raccontando
loro che i miei erano molto ricchi. Per questo il giorno dopo vi
evitavo e stavo sempre con le ragazze di città.
Mi
vergognavo di voi, le mie care amiche d'infanzia. Mi sembravate
tutte grezze e sempliciotte. Le vostre unghie era in disordine, come
i vostri capelli. Mentre io fin da piccola ci tenevo molto
all'aspetto fisico. Sapevo di non essere bella, ma ce la mettevo
tutta per esserlo, avevo cominciato a vestirmi elegante e ad usare
scarpe con un po' di tacco. Potrai immaginare quanto ho sofferto
durante quella gita, cui mia madre si era ostinata a farmi
partecipare. Mi sentivo brutta, infagottata in quegli orribili
indumenti che tra l'altro erano di mia cugina, bassa senza i miei
mocassini col tacco e avevo cominciato a depilarmi le gambe non
vedendo l'ora di ritornare a casa per farmi la ceretta perché
sentivo i peli che ogni giorno crescevano di un millimetro.
Non
ti ho mai detto che una sera una delle ragazze di Milano propose un
gioco di ruolo, così lo chiamava lei, che consisteva nel fare finta
di essere una coppia adulta di innamorati, quindi a forza di carezze
e manipolazioni era diventato un gioco sessuale. Voi ragazze di mare
eravate molti anni luce da quel mondo, pettinavate ancora le bambole.
Dopo quella gita ho cominciato a frequentare ragazzi di città e
d'estate giovani villeggianti che venivano a passare le vacanze nel
nostro paese. Non mi interessavate più né voi né i maschi della
nostra età, nonostante due di loro, i più belli, mi avessero fatto
perdere la testa l'anno prima.
Non
fraintendermi, mi piaceva anche stare con voi, perché eravate
allegre, ma i maschi di città mi attraevano di più. Mi
sentivo dimezzata, da una parte c'eravate voi dall'altra c'era la mia
via di fuga. Ripensandoci adesso forse avevo troppa fretta di
tuffarmi nel mondo degli adulti.
Tu
non avevi mai detto di voler partire. Sembravi tranquilla, ricordo
che l'unica cosa che ti dava fastidio era il fatto che ti
affibbiassero come fidanzato un ragazzo del paese. Volevi essere
libera. Poi quando è stata l'ora hai preso la decisione di
abbandonare la nostra terra, andando prima a studiare in città e poi
all'estero. Io invece che ero la più disinibita e decisa a fuggire,
sono ancora incatenata al nostro paese.
Penso
che se mio padre non avesse ereditato il negozio di sartoria nella
piazza principale, le cose sarebbero andate diversamente: i miei
genitori non avrebbero ingrandito l'attività, smerciando ogni genere
di abbigliamento, non avrebbero pensato solo a vendere per fare un
mucchio di soldi e soprattutto non avrebbero trascorso l'intera
giornata in negozio.
Ti
ricordi quelle volte che venivi a prendermi per andare a giocare?
Mentre mi aspettavi ti mettervi dietro il bancone e guardavi come mia
madre incantava le clienti con le sue chiacchiere. Io detestavo quel
negozio.
Non
ti ho mai fatto salire nella nostra casa, sopra la bottega. Si
sviluppava su due piani: al primo la cucina, il salone, sempre pieno
di merce, e un piccolo bagnetto, al secondo due camere da letto e uno
stanzino. Per noi era tutto un sali e scendi, per questo eravamo
sempre nel retrobottega, la nostra abitazione era diventata un
accessorio.
Sono
stata cresciuta da zia Rosa insieme ai miei fratelli. Ti viene in
mente? Aveva sempre un grembiule color topo, come i sui capelli.
Era
una brava donna, ma piena di insicurezze e sensi di colpa. Non si
sentiva a suo agio con mia madre, la quale non la poteva soffrire e
la trattava come una serva. Mi diceva che avrebbe voluto aver una
casa di proprietà e un lavoro, ma purtroppo in quei tempi era
usanza che le donne nubili vivessero con uno dei fratelli coniugati,
per occuparsi delle faccende domestiche e allevare i nipotini.
Povera
zia Rosa! Quando ci ripenso mi viene la pelle d'oca, immaginando la
misera vita che le toccò fare, sempre chiusa in casa, a pulire,
cucinare e allevare figli altrui. Inoltre i miei genitori erano
piuttosto tirchi, come del resto gran parte della mia famiglia. La
povera zia, si recava al mercato alla fine della mattinata per
raccogliere i capi rotti di frutta e verdura. Poi la sera andava
dalla pescivendola, dove verso le sette arrivava il pesce fresco dal
porto. Ne comprava poco, ma chiedeva sempre che le regalassero code o
teste per la sua pentola. L'odore di zuppa di pesce o di frittura
impregnava tutta la casa, insieme al tanfo del cavolo che di solito
in inverno faceva bollire a lungo.
La
domenica era l'unico giorno che la vedevo sorridere, forse perché
dopo la messa andava a trovare l'unica amica che aveva.
I
miei nonni sono morti quando ero troppo piccola, non ho nessun
ricordo di loro, ma zia Rosa mi parlava spesso di suo padre, il
quale era molto amico di tuo nonno materno, credo che andassero
insieme in cerca di uccelli, non tanto per mangiarli, quanto per
tenerli in una gabbia. Mio nonno aveva una gran passione per i
volatili e poca per il lavoro. Sua moglie in bottega doveva fare di
nascosto l'usuraia per tirare avanti la famiglia.
Mi
piace pensare che ognuno di noi abbia preso qualcosa dei propri
antenati, ma di zia Rosa non riuscivo a realizzare cosa avessi
ereditato. Fino a che l'altro giorno, ho trovato dentro un suo libro
un ritaglio di giornale locale che diceva:
“I
Signori Lattuada annunciano il fidanzamento della loro figlia Rosa
con il giovane Ernesto Giraldi, figlio dell'illustre Notaio della
nostra cittadina. Le nozze sono previste per la prossima primavera”.
Zia
Rosa non mi aveva mai parlato del suo fidanzato, ma pensandoci bene,
mi vengono in mente sprazzi di conversazione che sentivo quando mi
portava dalla sua amica, la quale ci offriva sempre una cioccolata
calda.
Non
ti ho detto che ultimamente ho più tempo libero, ho lasciato il mio
impiego, adesso lavoro in proprio, ma con la crisi le cose non vanno
del tutto bene.
Ho
deciso di vendere alcune proprietà che mi sono rimaste in paese.
Adesso
vado a letto, mi sento strana nella casa dove sono nata e cresciuta.
Con i miei fratelli l'abbiamo tenuta in piedi, ma adesso dobbiamo
proprio venderla perché cade a pezzi.
Mi
ha fatto molto bene rivederti. Adesso sono più tranquilla, avevo
paura di non essere riconosciuta da te. Ti devo raccontare ancora
tante cose.