Quel giorno non ho lavorato quindi, ho dedicato tutta la mattinata, prima alla casa e poi a scrivere.
Mentre
mi dirigevo in macchina al supermercato per fare la spesa, ho
pensato a Giacomo, nostro primo figlio. Sarà stata una canzone
sentita alla radio quella che mi ha fatto ricordare il suo magro
corpicino?
Mi
sentivo raffreddata. Per me questo stato catarroso, a volte poteva
essere un bene, perché il virus mi faceva rallentare tutte le
azioni. Pensavo, davanti alla bilancia, tra la pesata dei pomodorini
e quella del cavolfiore, che appena sarei arrivata a casa, avrei
scritto la storia di Giacomo. Piano piano ho scaricato la spesa e
poi seduta nella scrivania ho preparato le lezioni per il giorno
dopo.
Tra una
cosa e l'altra sono arrivata all'ora di pranzo, senza aver scritto
niente. La lentezza virale mi aveva fatto crogiolare sui mie libri.
Da
quando i nostri figli ventenni erano lontani dall'Italia per
studiare, pranzavo sempre da sola, dato che U. mangiava tutti giorni
nel posto di lavoro. Mi
piaceva assaporare una bella insalata mista, mentre ascoltavo la
radio o guardavo il telegiornale. Questa sensazione di libertà e il
ricordo di Giacomo mi hanno riportato a un giorno invernale di
qualche decennio prima, seduta sul divano verde della nostra prima
casa.
Avevo
quasi trent'anni quando un pomeriggio ho sentito la voglia di avere
un figlio.
Appena
è arrivato U. a casa dal lavoro l'ho abbracciato e gli ho detto:
- Sarebbe
bello avere un bambino
- Mi
piacerebbe essere padre, ma forse aspettare un po' di tempo sarebbe
meglio.
- Adesso
sento un gran desiderio di essere madre, cosa che non avevo
percepivo mai prima, e penso che sia arrivato il momento di avere
un figlio.
- Io
ho un lavoro fisso, ma tu non sei assicurata nella scuola privata
dove lavori. Quando sapranno che sei incinta forse ti manderanno
via, diceva U.
- Le
cose si sistemeranno. Posso continuare a impartire lezioni private
a casa.
- Come
farai a insegnare con un bambino tra le braccia?
- Non
essere buffo, ci siamo sempre arrangiati, ce la caveremo, dicevo io.
- Ancora
non abbiamo una casa nostra, forse dobbiamo aspettare un altro po',
ribadiva lui.
Eravamo
in affitto in un bel monolocale, posto al pian terreno di un palazzo
antico, che ci piaceva molto, ma nel quale, aveva ragione U., non
c'era posto per un bambino.
Un
giorno di primavera questa discussione l'abbiamo fatto con un nostro
caro amico. Quest'ultimo, con la sua mentalità troppo maschile e
un po' egoista, mi voleva persuadere a tutti costi che i figli
portano solo problemi.
U. era
indeciso sul momento di procreare, ma voleva avere due o tre figli,
diceva. Invece l'amico era fermamente convinto di non volere che la
metà del suo DNA facesse parte di un nuovo essere.
Io
invece sentivo, ogni giorno che passava, sempre più forte il
desiderio di maternità.
Dopo
alcuni mesi da quella lunga discussione, è rimasta incinta la moglie
del nostro amico. Lui era infuriato, ci diceva che era stato un
grosso errore quella gravidanza, ma che quello sarebbe stato il suo
primo e ultimo figlio. Lui ha mantenuto la parola, ma qualcosa si è
rotto nella coppia, perché dopo pochi anni dalla nascita della loro
figlia si sono separati.
Arrivate
le vacanze di Natale andammo a trovare i miei, nel paese dove
abitano vicino a Barcellona, dopo abbiamo proseguito il viaggio verso
Sud con mio fratello e sua moglie. A Siviglia ho capito di aspettare
un figlio.
Avrei
voluto, godere quel momento nell'intimità con U. invece eravamo
sempre in compagnia e il viaggio era molto faticoso: attraversavamo
l'Andalusia con un vecchio furgone. A Siviglia l'appartamento,
prestato da una amica di mio fratello, era molto piccolo e molto
freddo. Mia cognata voleva andare da una parte e U. invece d'altra,
insomma tutto era un po' stressante.
In quei
giorni avevo notato, nel bagno di un locale gremito di gente, di
avere delle piccole perdite di sangue.
La sera
abbracciata a U., mentre dormiva, parlavo con Lui, il piccolo, che
sette mesi dopo abbiamo chiamato Giacomo, dicendogli:
- No
fugis, ara que has arrivat. Resisteix, no ens deixis, que ja
t'estimem molt1
Percepivo
che qualcosa non andava bene, dato che mi sentivo strana e avevo
sempre mal di testa. Ricordo che il giorno dell'ultimo dell'anno, con
i coriandoli nei capelli, in un locale del centro di Siviglia,
nonostante il malessere fisico, ero felice pensando alla nuova vita
che si faceva strada, ma soprattutto vedendo U. raggiante di
allegria.
Giacomo
non ci ha mai lasciati a Siviglia, ha tenuto duro, ed è rimasto nel
mio grembo fino alla fine di luglio. Dopo la sua nascita ha
resistito nove giorni, nell'incubatrice dell'ospedale pediatrico di
Padova, dove ci siamo recati, nel momento in cui dottori avevano
avuto i sospetti che il feto avesse un'anomalia cromosomica.
Era
piccolo, ma bello. Aveva una trisomia 18, il che significava che le sue cellule possedevano un
cromosoma in più e questo provocava, tra le altre disfunzioni, una
grave malformazione cardiaca. Pesava solo un chilo e mezzo.
Ho
pochi ricordi di quel magro corpicino: le impronte dei suoi piedini,
il suo braccialetto con inciso il numero di riconoscimento, il suo
gruppo sanguigno, la fotografia dei suoi cromosomi, il suo
certificato di morte e la sua lapide nel cimitero di Poppi.
La
morte di Giacomo è stato per noi il primo gran dolore. Ma in quei
momento non potevamo immaginare che la perdita del nostro primo
figlio ci avrebbe regalato una visione migliore della vita.
U. mi è
stato sempre vicino, ha pianto insieme a me e ha saputo aiutarmi
a superare i momenti più difficili, dimostrandomi il suo amore.
Per
riprenderci ed elaborare serenamente il nostro lutto abbiamo deciso
di recarci al mio paese, allontanandoci da Firenze, dove molti
conoscenti, ignari dell'accaduto, vedendomi da sola, senza
carrozzina, mi chiedevano:
- Dove
hai lasciato il bambino?
- E'
morto, dicevo.
In
paese, mia madre, mia sorella, mia zia, le cugine e le amiche mi
consolavano dicendomi che quella disgrazia era capitata a molte
donne. Ricordo che nelle ore di calura, zia Margherita, seduta con
me in cucina, mentre tutti dormivano la siesta, mi ha raccontato
alcune storie di donne che avevano perso il loro primo figlio, ma
quella che mi ha colpito di più è stata la storia di Anita, la
llevadora2,
Mia zia cominciò dicendo cheAnita un giorno aveva sentito un forte desiderio di avere un figlio.
Era
seduta a prendere il fresco sotto un ulivo con Anselmo, suo marito,
vicino a un paesino della provincia di Jaen, dove, prima che
scoppiasse la guerra civile, erano andati ad abitare.
Aveva
ventisei anni e tutte le sue coetanee a quell'età avevano due o tre
bambini, ma lei, fino a quel giorno, desiderava solamente aiutare le
donne a partorire e pensava fermamente di non voler procreare
durante quel periodo di tumulti e lotte politiche.
Perché
adesso sentiva quel forte desiderio di tenere stretto un figlio tra
le braccia? Era un sentimento nuovo e quasi se ne vergognava, dato
che i tempi erano così difficili che la gente stentava a procurarsi
i mezzi per il proprio sostentamento.
- Mettere
al mondo un figlio forse è da incoscienti, ma adesso sento una gran
voglia di maternità, disse Anita a suo caro marito.
- Sarebbe
meglio aspettare tempi migliori, ma sono contento di
questo tuo nuovo desiderio. È da parecchio tempo che ci penso, a
un figlio, ma ti vedevo così presa dal tuo lavoro che non volevo
che ti sentissi obbligata a darmi un erede, le rispose Anselmo.
- Mi
piacerebbe che nostro figlio avesse la testa rotonda ed elegante
come la tua, la tua bontà e la tua voglia di vivere, gli sussurrò lei all'orecchio.
Cominciava
ad imbrunire, quando Anita sentì un brivido
d'emozione, forse perché era felice di aver parlato con Anselmo e
di aver percepito che lui l'amava.
Dopo
qualche mese capì di essere incinta, non per questo lasciò il duro
lavoro, che continuò a svolgere con passione. Intanto le truppe del
Generale Franco, provenienti dalla colonie spagnole del Marocco,
erano sbarcate nella penisola e avevano preso alcune città, tra le
quali Siviglia e Granada, nell'Andalusia occidentale. Nell'ospedale,
dove Anita seguiva i parti più difficili, un giorno arrivarono
delle milizie franchiste e occuparono con la forza alcuni
padiglioni. La levatrici voleva aiutare una donna incinta di sette mesi, la
quale era stata ricoverata quella mattina per un distacco della
placenta. I militari avevano ordini di sgomberare il reparto per
farci un accampamento. Mentre Anita discuteva con i miliziani, sentì
uno scoppio.
Quando
aprì gli occhi, coperta da polvere e macerie, vide, in mezzo a una
pozza di sangue, la donna che aveva voluto salvare. Anche lei aveva
perso sangue e appena riusciva a mettersi in piedi.
Presto
sospettò che il nascituro stesse soffrendo, dato che non percepiva
più i piccoli calci che lui solleva lanciare a tutte le ore, come
il picchiettio leggero di chi bussa alla porta.
Era
debole e non riusciva quasi a camminare, ma appoggiandosi alle
spalle di una donna riuscì ad arrivare dal vecchio dottore.
Il
medico visitandola vide che c'era una forte sofferenza fetale e che
bisognava effettuare rapidamente un taglio cesareo.
Il
corpicino del bambino pesava poco, ma era bello e Anita notò
subito la sua testa rotonda ed elegante come quella di Anselmo. Era
nato vivo, ma dopo poche ore morì.
Lavarono
e vestirono il corpo di quella povera creatura e lo misero in una
scatola di cartone.
L'indomani Anita sentì che usciva il latte dai suoi capezzoli. Sempre, dopo i
parti, provava una gran gioia vedendo i seni gonfi delle
partoriente, che le sembravano delle morbide caciotte, ma adesso
guardando i suoi sentiva un gran dolore.
Senza
tregua si chiedeva:
- Perché
è dovuto succedere a noi?
- Perché
non ho voluto aspettare un po' di tempo prima di avere un figlio,
come diceva Anselmo?
- La
colpa è stata tutta mia.
Ben
presto scoprì che molti capelli le cadevano e questo la faceva
piangere dal dispiacere.
Anselmo
la sera la portava a fare delle passeggiate,
parlandole, con entusiasmo, del loro futuro.
Dopo
qualche giorno, tornò all'ospedale e piano piano il lavoro la
rasserenò.
Anita,
dopo quella disgrazia, sentì che amava profondamente quell’uomo buono.
La storia di Anita, raccontata da zia Margarita, contribuì a restituirmi la speranza e soprattutto la voglia di ricominciare.
La storia di Anita, raccontata da zia Margarita, contribuì a restituirmi la speranza e soprattutto la voglia di ricominciare.
La
lentezza che mi aveva procurato il virus mi aveva permesso di
ricordare la storia della breve vita di Giacomo e di apprezzare
che la morte prematura di nostro figlio ci aveva uniti saldamente.
Dovevo
ringraziare Giacomo, quel figlio che avevo tanto desiderato.
1 Non
fuggire, ora che sei arrivato. Non lasciarci che già abbiamo
cominciato ad amarti
2 Levatrice
è molto triste e coraggioso!
RispondiEliminaluisa
Grazie Luisa.
EliminaQuando permetti agli altri di leggere il racconto della tua vita questa diventa parte della vita degli altri.
RispondiEliminaGiancarlo
Grazie per seguire il mio blog. Penso che condividere le proprie esperienze possa servire anche agli altri.
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