Lui aveva aperto piano, piano la finestra di camera, poi respirando profondamente l'aria fresca, mi aveva proposto, tutto
contento, di andare a
fare una bella girata fuori città. Ancora ero mezzo addormentata
quanto ho capito che era sabato e quindi non dovevamo andare al lavoro. Ero un po' stupita da quel
risveglio, perché di solito la mattiniera sono io e non lui.
La giornata di fine
settembre, in effetti, era molto luminosa ed allora anche a me è
arrivata la contentezza e la voglia di andare in campagna.
Lui sarebbe partito
prima in bicicletta e io lo avrei raggiunto in macchina.
Mentre guidavo, ho messo
un po' di musica. Pensare che una volta in macchina ascoltavo quasi
esclusivamente la radio, perché mi dimenticavo i nastri ( dopo i CD)
a casa. Adesso con i nuovi cellulari, basta un cavetto e si può
ascoltare tutta la musica che si ha nella memoria del telefonino.
La modalità di ascolto
casuale è rilassante e alla volta stimolante perché ti porta da un
cantante all'altro. Ogni volta è come una sorpresa. A un certo punto
ho sentito una canzone che ascoltavo quando ero adolescente ed allora
la mia mente è volata verso Irene.
Eravamo cresciute
insieme, abbiamo fatto le scuole elementari e medie nella stessa
classe, poi alle superiori ci siamo separate. A scuola era la prima
in tutto. Era bravissima, sapeva suonare il pianoforte, ballava bene,
aveva orecchio per le lingue e riusciva a fare
bene tante altre cose. Inoltre era stata precoce nello sviluppo ed essendo carina e
formosa era molto ricercata dai ragazzi.
A volte sembrava molto
sicura di se stessa, altre si vergognava del suo corpo. Mia madre che
era un po' ossessionata con la nutrizione mi pesava spesso, con una
bilancia che era stata di mio nonno e che serviva per pesare la merce
che lui commerciava. Appena mia madre mi vedeva entrare a casa con
Irene, ci diceva:
- Venite che vi peso.
Guai a voi se siete dimagrite.
Irene cominciò a non
voler venire più da noi, temeva che mia madre tirasse fuori dal
ripostiglio la bilancia.
Un giorno mia madre ci
aspettava alla porta e ci disse che non ci avrebbe potuto pesare più
perché qualcuno aveva manomesso la bilancia.
Vidi negli occhi di Irene
un lampo di felicità, che durò poco, perché subito mia madre disse
ridendo tra i baffi:
- Guardate Irene, lei si
che è una bella bambina, che belle cosce cicciottelle che ha. Poi
più seria disse:
- Bisogna mangiare molto
altrimenti prenderete tutte le malattie del mondo. Pronunciava
questa frase guardando solo me. Poi aggiungeva:
- Io ho avuto problemi
col cibo, non avevo mai appetito, per questo mi sono ammalata e
ancora oggi non sono guarita.
Avrei voluto sprofondare,
vedendo la faccia triste di Irene.
Mia madre dopo se ne
andò come se niente fosse verso il giardino e noi due rimanemmo pietrificate nel cortile.
Non ho mai capito cosa le
era successo negli anni di liceo in cui ci siamo lentamente
allontanate. Ricordo che si era fidanzata con un ragazzo del paese
ed era dimagrita molto. Alla fine delle superiori, lei, la più
brava del gruppo, aveva deciso di non fare l'Università, perché il
fidanzato non non era contento che lei andasse ad abitare in città
con altre studentesse.
Dopo pochi anni mi sono trasferita a Firenze e l'ho un po' persa di vista, ma da mia madre
ho saputo che si era lasciata col fidanzato storico e che era
iscritta alla facoltà di lettere.
Ne ero molto contenta, ma
non ho avuto occasione di parlarne con lei, fino a quando un giorno
mi ha chiamato per dirmi che si stava per sposare, che i suoi le
avevano comprato un appartamento in paese e che come viaggio di nozze
avrebbe fatto un giro per la Toscana.
Sono venuti a trovarci un
giorno soleggiato d'inverno. Ci siamo dati appuntamento in piazza Duomo. La
mattina siamo andati a visitare i vari monumenti ed edifici
storici della città. Nel tardo pomeriggio i nostri mariti sono andati a vedere una mostra fotografica. Siamo rimaste da sole per
qualche ora. Ne abbiamo approfittato per passeggiare senza meta per
le stradine del centro e per parlare fitto, fitto.
Mi ha raccontato del
periodo difficile che aveva avuto, ma che adesso per fortuna aveva
quasi superato quelle fisime alimentari. Non sapeva se era stata una
vera anoressia, dato che negli anni settanta, i medici ancora non
pronunciavano quella parola. A un certo punto ridendo mi si è
avvicinata e come se mi volesse fare una confidenza, mi ha detto:
- Sai, che per ora non
intendo lavorare. Non so se mi piacerà fare la casalinga, ma
intanto ci provo.
- Perché non ti cerchi
un lavoro in città? E' importante che tu non dipenda economicamente
dal marito
- Hai ragione, ma è più
forte di me. Quando devo decidere cose importanti mi
blocco e lascio che gli altri decidano per me. Mi sento come quando
dovevo prendere la patente. Durante i sorpassi, invece di
accelerare perdevo velocità e alla fine rientravo. Non riuscivo ad
andare avanti dalla paura. Ancora oggi preferisco che qualcun altro
mi porti a destinazione o piuttosto prendo il treno.
- In questo hai ragione,
se non ti piace guidare non farlo, ma il lavoro è un'altra cosa, non
puoi dipendere sempre dagli uomini. Ribattevo io.
Irene rideva e mi diceva
che io ero troppo esagerata, e che lei era felice così e basta.
Ma prima di rientrare a
casa, mi abbracciò e mi confessò che sperava di riuscire prima o poi
a fare il suo sorpasso.
Ricordai di aver letto che
alcune persone hanno a questo proposito un gene alterato. Una
scrittrice canadese li chiamava, dislessici geografici:
si disorientano, si perdono nei paraggi nuovi e non hanno facilità
per la guida. Credo che Irene ed io apparteniamo a questa
categoria, pensai.
Nemmeno io amo troppo
prendere la macchina. Ma dovete sapere che soffrendo di mal di
mare, nei viaggi in cui la strada è piena di curve ha
cominciato a piacermi stare alla guida. Quindi quella mattina di
settembre mi sentivo bene guidando mentre ascoltavo la musica e pensavo ad Irene.
A un certo punto, dopo
una curva, davanti a me è apparso un trattore. Ho aspettato che
il tratto di strada fosse adatto per il sorpasso, ma non ci sono riuscita
perché venivano in continuazione macchine dalla corsia opposta.
Intanto avevo rallentato. Appena la strada è rimasta sgombra, ho
cominciato il sorpasso. Ero in salita e non avendo dato troppo gas,
sentivo che la macchina aveva appena la forza necessaria per
superare l'autoveicolo. Ho cambiato marcia e ho premuto
l'acceleratore.
Quei decimi di secondo
accanto al trattore sono stati lunghissimi, avevo paura che
apparisse davanti a me una macchina. In quell'attimo era tutto
appeso a un filo. Vita e morte.
Con molto sollievo ho
superato il mezzo agricolo.
Le montagne, il cielo e gli alberi mi sembravano
più belli del solito, era come se fosse rinata, mi
sentivo una donna fortunata.
Dopo qualche
chilometro ho sorpassato e salutato il ciclista solitario.
Nessun commento:
Posta un commento