martedì 19 luglio 2016

Il prete ye-ye - Mossén ye-ye


















Erano le cinque del pomeriggio di una domenica di fine estate, quando Flora sentì suonare il campanello.
- Ci vado io ad aprire. Disse urlando per farsi udire dalla madre, mentre scendeva le scale di corsa.
Le piaceva girare, prima la chiave, che era di solito lasciata nella serratura della vecchia porta, poi la maniglia di metallo dorato e nell' aprire fare entrare una vampata di aria nuova insieme alla persona che attendeva all'uscio.
Dall'ombra che si vedeva attraverso i vetri della porta, aveva capito che era zia Margherita, la sorella minore della madre. La zia aveva l'abitudine di andare ogni domenica a trascorrere il pomeriggio nella loro casa, dove era nata e vissuta finché non si era sposata.
- Ciao Florita! Come sta oggi tua madre?
- Non riesce a camminare bene, sempre per colpa dei reumatismi! Rispose  la ragazza.
C'era una certa intesa tra zia e nipote, quindi non c'era bisogno farsi domande personali o complimenti, invece tutto girava intorno alla madre.
Ma prima di attraversare il lungo corridoi e le stanze buie che portavano al cortile, dove di solito era seduta la madre, Margherita accarezzava il viso della nipote.
Il patio era fresco perché ci batteva poco il sole e per le tante piante che c'erano. Alcuni vasi di terracotta erano appartenuti addirittura ad una bisnonna, che proveniva da una famiglia di vasai.
- Meno male che sei arrivata. Sono sempre da sola la domenica pomeriggio, sussurrava la madre, dopo aver salutato la sorella con un leggero movimento della testa, ma senza alzarsi dalla poltrona di vimini.
- I nostri mariti hanno l'abitudine di andare al caffè, il mio a giocare a scacchi, il tuo a carte. E' una vecchia usanza il fatto che gli uomini escano per conto loro durante le sere di festa; non è poi così negativo poter chiacchierare in santa pace noi donne insieme. Disse Margherita mentre prendeva una sedia della cucina e la portava nel patio.
- Flora è in casa, ma è come non ci fosse, è sempre in camera a leggere, disse a bassa voce la madre a Margherita, mentre la figlia preparava in cucina una limonata con un po' di ghiaccio.
- Ha quasi diciotto anni, è normale che faccia la sua vita, ma anche a me dispiace un po' che si sia iscritta all'Università e vada via del paese tra poche settimane. Mi mancherà, disse la sorella pochi secondi prima che Flora apparisse portando un vassoio con una brocca di bevanda fredda e tre bicchieri.
- Vi farò un po' di compagnia. Mi diverto ascoltando i vostri aneddoti e le storie di una volta, disse la ragazza lasciando il vassoio sulla fontana di pietra,  di cui serviva per annaffiare le folte piante,  di cui la madre quando stava bene si  occupava.
Flora sentiva la necessità di volare via di casa, di conoscere nuova gente, di imparare tante cose e di trovare poi un lavoro, ma invece per la madre tutto ciò voleva dire abbandonare la famiglia.
- Non riesco a stare in piedi. Mi duole tutto il corpo. La notte non chiudo occhio. Mi sa che non guarirò mai da questa malattia!  Diceva la madre con un tono di voce sempre più languido.
Zia Margherita aveva una gran pazienza. Ascoltava, senza mai innervosirsi, tutte le lamentele della sorella, poi quando quest'ultima si era sfogata, cominciava a parlare.
-Vi ricordate quella mattina in cui, alla fine della messa, mia suocera - sarebbe meglio dire la signora Enriqueta, altrimenti se mi potesse sentire si arrabbierebbe da morire, dato che odiava questa parola - rientrò a casa scandalizzata a causa di Mosen ye-ye, il quale per prima volta aveva sostituito al parroco improvvisamente malato.
Allora Margherita cominciava a fare il verso alla signora Enriqueta, facendosi il segno della croce ripetutamente.
- Dove andremo a finire con questo prete giovane, gli ho visto spuntare i pantaloni jeans dalla veste. Aggiungeva la zia, imitando la voce della suocera.
Flora e sua madre, ridevano fino alle lacrime.
L'aiuto parroco, Joan Alsina, era arrivato in paese a metà degli anni sessanta, era il suo primo incarico. Era chiamato da tutti mossén ye-yé perché faceva delle cose insolite, appunto moderne per tutti: fumava come un carrettiere, a volte diceva parolacce, andava spesso al caffè a prendersi un bicchierino di cognac con gli operai, suonava la chitarra, era sempre circondato da giovani e bambini e soprattutto aveva fatto amicizia anche con chi non frequentava la chiesa, come il padre di Flora.
- Pensate la faccia che avrebbe fatto mia suocera nel vedere Mossén yeyé in vespa, diceva Margherita senza riuscire a finire la frase perché scoppiava anche lei a ridere.
Tutti in paese, tranne che alcune beate lo rimpiangevano. Alla fine degli anni sessanta era partito per il Cile, dove voleva rimanerci alcuni anni per aiutare le classi più deboli. A lui piaceva definirsi prete-operaio, perché gli stava a cuore la situazione dei lavoratori.
Quel pomeriggio di fine estate del 1973, quelle tre donne mentre ridevano non potevano immaginar che dopo qualche giorno ci sarebbe stato un colpo di stato in Cile e che il loro amato Mossén yeyé, che tanto aveva fatto per la gente del paese e dopo per il popolo cileno, sarebbe stato  crudelmente fucilato dai militari.

Mosén ye-ye
Eran las cinco de la tarde de un domingo de finales de verano, cuando Flora oyó sonar el timbre. Era el mismo ruido de siempre, pero aquel día le pareció más estrepitoso.
- Ya voy yo. Le dijo gritando a la madre para que la oyera, mientras bajaba las escaleras.
A ella le gustaba, primero correr la llave, que dejaban en la  cerradura de la vieja puerta, luego apretar la manecilla de metal hacia abajo y por fin abrir de par en par, dejando penetrar una ráfaga de aire fresco junto a la persona que aguardaba en el zaguán.
Por la sombra, que se  veía  a través de la puerta de cristales, se dio cuenta de que era la tía Margarita, la hermana menor de la madre. Su tía todos los domingos solía ir a pasar la tarde en el  caserón, donde había nacido y vivido hasta el día de su boda, en el que se mudó a una vivienda cercana.
- ¡Hola Florita! ¿Cómo está tu madre? Le preguntó.
-¡Hoy incluso le cuesta andar, todo por culpa del dichoso reumatismo! Le contestó la chica.
La tía y la sobrina se entendían bien, por eso no necesitaban hacerse cumplidos o preguntas personales, todo daba vueltas alrededor de la madre. Sin embargo antes de cruzar el largo pasillo, el salón sin luz y el cuarto de estar que daba al patio, donde por lo general se sentaba su madre, Margarita acarició delicadamente el rostro de su sobrina.
El patio era fresco, porque casi nunca tocaba el sol y por las
  plantas  tupidas que crecían en grandes  macetas de barro cocido, algunas de ellas habían pertenecido a una bisabuela, que provenía de una familia de alfareros.
- Qué bueno que viniste. Siempre me dejan sola los domingos por la tarde. Le dijo la madre de Flora a su hermana, con una mueca que quería ser un saludo de bienvenida, pero sin levantarse del sillón de mimbre.
- Nuestros maridos están acostumbrados a ir al café, él mio para jugar a ajedrez, él tuyo a echar una partida de cartas. Es tradición que los hombres salgan sin sus esposas durante las tardes de fiesta; no es tan negativo si lo piensas bien, de esta manera nosotras, las mujeres, nos juntamos para charlar un rato. Dijo eso Margarita mientras tomaba una silla de la cocina y la llevaba al patio.
- Flora está en casa, pero es como si no hubiera nadie, siempre lee en su cuarto. Le dijo en voz baja a Margarita, mientras en la cocina su hija estaba preparando una limonada con un poco de hielo.
- Tiene casi dieciocho años, es normal que haga su vida. Pero te entiendo, pues yo también siento que se vaya del pueblo, para ir a estudiar. La voy a echar de menos. Dijo Margarita antes de que Flora apareciera  llevando una bandeja con una jarra y tres vasos.
- Voy a haceros un poco de compañía. Me gusta escuchar vuestras anécdotas e historias del pasado. Dijo la chica dejando la bandeja sobre la fuente de piedra, que se utilizaba para regar las  flores,  las cuales la madre cuidaba con esmero, cuando su enfermedad se lo permitía.
Flora sentía la necesidad de marcharse de aquella casa, para conocer a gente nueva, para  estudiar una carrera y para encontrar luego  un empleo, sin embargo para la madre todo esto quería decir perder a la hija.
- Ya estoy harta que me duela todo el cuerpo. Esta noche no pude pegar ojo. Yo sé que nunca voy a recuperarme de esta enfermedad. Declamaba la madre cómo si fuera una letanía, con una voz que se hacía paulatinamente lánguida
Margarita tenía mucha paciencia. Nunca se ponía nerviosa, escuchaba todas las quejas.  Aquella tarde, cuando la hermana ya se había desahogado completamente, comenzó a hablar
- Os acordáis de la mañana en que, al salir de misa mi suegra - perdón debería decir, la señora Enriqueta, de lo contrario si ella pudiera oírme se enojaría, porque odiaba esa palabra - entró en casa escandalizada debido a Mossén ye-ye, quien por primera vez había sustituido al párroco del pueblo, quien se había puesto enfermo de repente.
A continuación, Margarita empezó a imitar a su suegra, haciéndose  santiguándose repetidas veces.
- ¿A dónde iremos a parar con ese  cura tan joven? Le he visto que le salía el borde de los pantalones tejanos debajo de la sotana. Añadió Margarita asemejando la voz  de la suegra.
Flora y su madre reían con tal
regocijo que no lograban decir nada, pues las lágrimas empezaron a descenderles por el rostro, emitiendo sonidos inarticulados y acompañados por sacudidas del cuerpo.
El sacerdote, Joan Alsina, había llegado al pueblo a mediados de los años sesenta, era su primer destino. Todo el mundo lo llamaba Mossén ye-ye porque hacía cosas inusuales, de hecho modernas para todos: fumaba como un carretero, a veces decía palabrotas, a menudo iba a la cafetería a tomar una copa de coñac con grupos de obreros, tocaba la guitarra, siempre estaba rodeado de jóvenes y niños e incluso se había hecho amigo de los que no iban misa, como del padre de Flora.
- Pensad en la cara que habría puesto mi suegra al ver a Mossén Ye-ye en motocicleta. Dijo Margarita, incapaz de terminar la frase porque entonces también ella se echó a reír.
Todo el mundo en el pueblo, excepto unas pocas beatas estaba apenado por la ausencia del sacerdote. A finales de los años sesenta se había marchado a Chile, donde quería quedarse unos años para ayudar a las clases más bajas. A él le gustaba definirse un cura-obrero, porque luchaba para mejorar la situación de los trabajadores.
Aquel domingo de finales del verano de 1973, esas tres mujeres, que reían en el patio, no podían imaginarse que al cabo de pocos días habría un golpe de estado en Chile y que su querido Mossén ye-ye, quien había hecho tanto por la gente de la aldea y por el pueblo chileno, sería injustamente fusilado por los militares.



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