lunedì 30 ottobre 2023

Felipe (in italiano)- Cap 6

 


Nei giorni in cui Mariano non era impegnato a lavorare in farmacia, andava a passeggiare per il centro della città per poi recarsi in Plaza de Armas. Le strade erano affollate di gente che andava e veniva, a piedi, a cavallo, sui muli o sui carri, ovunque c'erano venditori ambulanti che urlando offrivano la sua merce: dolci, frutta, polli, uova, polpi, ecc.

Ogni settimana che passava Mariano sentiva di poter fidarsi di più di Felipe e un giorno cominciò a parlargli delle sue angosce:
- Da un lato sono contento di essere a Cuba, dall'altro vorrei fuggire per tornare in Spagna.
- Vedrai che piano piano ti adatterai a L'Avana, ma per molto tempo continuerai a sentire la mancanza della tua famiglia e della tua terra. So cosa si prova ad essere sradicati all'improvviso, quando ancora si è un ragazzo, disse Felipe.
- Il signor Sarrá mi ha accennato delle tue disavventure, ma quando è che sei arrivato a L'Avana?
- È meglio che te lo racconti dall'inizio, disse Felipe.
- Ti ascolto volentieri.
- Quando avevo dodici anni fui strappato alla mia famiglia e deportato in una zona della costa sulla foce del fiume Congo; passai molti giorni rinchiuso in una prigione su un'isola di cui non ho mai saputo il nome. Poi sono stato venduto a un negriero. Ho fatto un viaggio lunghissimo, durante il quale siamo stati ammassati e incatenati nella stiva della nave e alcuni dei miei compagni di sventura sono morti. Ci trattavano come animali, ci davano poco acqua e cibo. Ho resistito miracolosamente bevendo le mie urine. A Cuba, sono stato comprato da un proprietario terriero che possedeva una grande piantagione di tabacco, vicino a Viñales ... Il mio padrone era molto ambizioso, continuava a ingrandirsi e a comprare manodopera ai mercanti di schiavi, voleva accumulare una gran fortuna. Aveva lasciato il suo villaggio sulla costa catalana molti anni prima, povero in canna e si era messo in testa di tornare ricco, per farsi ammirare da tutti. Ma suo figlio maggiore era molto diverso, mi insegnò a leggere e scrivere di nascosto. Quando il padrone morì, il figlio vendette la sua parte di proprietà al fratello e mi diede la libertà. Ci trasferimmo insieme a L'Avana nel 1870, lui sposò una bella mulatta e mi pagò gli studi primari in una scuola clandestina, visto che a noi neri non era permesso di studiare; mi pagò anche un indennizzo per tutti gli anni di schiavitù. Fu lui a presentarmi il signor Sarrá, i due erano molto amici e parlavano catalano tra loro. Pensavano che io capissi solo lo spagnolo, ma io ascoltavo e imparavo sempre nuove parole della vostra lingua. In quel periodo, leggendo e ascoltando i due catalani, ho iniziato a capire la situazione politica di Cuba. Con i soldi che mi ha dato il figlio del mio ex padrone ho comprato una carrozza e due cavalli ed eccomi qua.
- È incredibile che tu sappia così tante cose e che addirittura conosca il catalano, ne sono emozionato.

Al ritorno Mariano gli disse:
- Grazie Felipe, da quanto ti frequento non ho più l’idea fissa di ritornare in Spagna. Nonostante quello che hai sofferto sei gentile con tutti, al tuo fianco le mie angosce svaniscono.
- La mia filosofia di vita è di apprezzare ciò che ho e di non sentirmi infelice per tutto ciò che gli altri hanno più di me, ma allo stesso tempo vorrei che non ci fossero così tante disuguaglianze. Mi circondo di persone che amano la vita e sto lontano dai conflitti e da tutti coloro che sono egoisti e malvagi.
- Tu parli di stare lontano dai conflitti, ma da quello che mi dici sei un simpatizzante di Carlos Manuel de Céspedes: andresti a combattere per una causa nobile come quella dei separatisti?
- Appoggio la causa di Céspedes, ma vorrei che lui raggiungesse il suo obiettivo di forma pacifica. Hai letto il suo emozionante discorso dell'ottobre 1868, in cui proclamava la libertà per tutti gli schiavi?
- No, ma mi piacerebbe farlo.
- Te lo porterò.
In quel periodo Mariano cominciò a dormire di più e all’alba non si svegliava di soprassalto. Il ricordo dell’appuntamento del lunedì lo allontanava dai suoi pensieri cupi e quando all'imbrunire vedeva apparire nella Plaza de Armas la carrozza di Felipe, era felice sentendo la sua voce che diceva:

- Dai vieni, andiamo a fare un giro.
Un giorno Felipe gli portò il Manifesto del grido di Yara, quella stessa sera Mariano lo lesse attentamente e il lunedì successivo disse a Felipe:

- Mi è parso di capire che tra i principali obiettivi indicati nel documento vi siano il raggiungimento della totale indipendenza dalla Spagna e la graduale abolizione della schiavitù in cambio di un indennizzo da concedere via via ai proprietari terrieri. È molto nobile da parte di Céspedes aver dato un'immediata applicazione pratica alla dichiarazione, concedendo la libertà ai suoi schiavi e invitandoli a unirsi alla lotta su un piano di completa uguaglianza con i bianchi, ma le sue idee pacifiche sono scomparse. Mi sembra che il testo non lasci dubbi sul fatto che gli obiettivi debbano essere perseguiti attraverso la guerra. Temo che i poveri schiavi saranno quelli che soffriranno di più e che sarà difficile per Céspedes raggiungere nella sua lotta la completa uguaglianza tra bianchi e neri.
- Questo è esattamente quello che temo io. Sono passati più di cinque anni dalla rivolta di Céspedes. Ci sono stati molti morti, ma la maggior parte erano e continueranno a essere di pelle nera, disse Felipe.
- Mi piacerebbe sapere di più su Céspedes.
- Mariano, per conoscerlo forse dovresti leggere le sue poesie, te ne voglio recitare una che mi piace in particolare:

Forse il destino che costruiamo
è quella pietra spinta in salita
Dove la parola scivola di nuovo
Ai piedi del prossimo poeta

Forse ciò che realizziamo spingendo la pietra
È l'etern
o decifrare del passo dimenticato
Dove troveremo le chiavi precise
Così che un giorno la roccia prenderà il suo posto sulla cima.

- Nemmeno io capisco come un poeta abbia potuto prendere le armi. Tutti dicono che è una causa nobile, certo che lo è, ma io continuo a pensare, come te, che debba essere raggiunta in modo non violento, disse Mariano.

- Spero che in futuro si possa raggiungere, replicò Felipe.
Mariano si sentiva sempre più a suo agio con Felipe, lo considerava un amico. Nessuno sapeva l'età esatta del cocchiere, forse non aveva ancora compiuto vent'anni, ma la sua saggezza era quella di un uomo che aveva vissuto molto. Felipe era intelligente e determinato, ma umile allo stesso tempo. Infondeva a Mariano fiducia e serenità perché percepiva il suo interesse per tutti gli esseri umani, ma, come aveva promesso al farmacista, quella volta non gli confessò che era un fuggiasco.
I giorni, le settimane e i mesi passavano velocemente, senza che Mariano si rendesse conto che stava per arrivare l'anno 1874, lui non si era ancora abituato al caldo inverno dei tropici. Trascorse le feste di Natale in casa del farmacista. La sera del 31 dicembre, si incontrò con Felipe in Plaza de Armas e per la prima volta i due amici parlarono d’amore.
- Hai una ragazza? Spero di non essere stato indiscreto con questa domanda.
- Beh, ci sarebbe una ragazza, Maria, ma non è ancora la mia fidanzata.

- Io invece ho Olivia, la sua pelle è nera come il carbone, adesso si trova in una piantagione di Viñales. Purtroppo è ancora una schiava, ma spero che presto diventerà libera. Non ti piacciono le donne cubane?
- Le donne cubane mi mettono suggestione. Per adesso mi sto scrivendo con María, la cameriera della Señora Valls, una ricca donna catalana che viaggiava col marito sulla mia stessa nave. Maria assomiglia un po' a mia sorella maggiore, hanno lo stesso nome, è molto carina e ha un buon carattere. Mi scrive che si sente sola, circondata da vasti terreni agricoli e da allevamenti di bestiame e che non va molto d'accordo con la sua bisbetica padrona. Vorrei andare a trovarla, vive in una fattoria a Soroa, a sud-ovest de L'Avana.
- In primavera ti accompagnerò alla fattoria dei signori Valls. E un altro giorno possiamo andare a Viñales, sto cercando di comprare Olivia al figlio del mio ex padrone. Finora non ci sono riuscito, sebbene abbia trovato un uomo bianco come intermediario, non c'è niente da fare, non vogliono vendermi Olivia.
I due amici salutarono il nuovo anno, dall'altra parte della baia, fumando una sigaretta e guardando il mare e la città in lontananza.
All'inizio di marzo Felipe sparì, la sua carrozza non si vide più in Plaza de Armas. Mariano ci rimase male e cominciò a chiedere di lui agli altri cocchieri, ma nessuno di loro seppe dargli alcuna risposta. Temette che avesse avuto un incidente, ma presto si rese conto che la sua scomparsa era collegata alla morte di Céspedes, avvenuta il 27 febbraio 1874.
- Non devi preoccuparti per Felipe, lui sta bene e presto si metterà in contatto con te. Lui sa cosa fa. Secondo me ha fatto bene a sparire, visto che, a causa delle sue idee politiche, all'Avana era in pericolo, disse il signor Sarrá.
- Felipe non mi ha mai svelato quali erano i suoi piani, ma credo che adesso, dopo la caduta di Céspedes, lui cercherà di combattere pacificamente per la libertà di Cuba, disse Mariano.





giovedì 26 ottobre 2023

El testamento - Cap. 14 (en español)

 

Tras la declaración de amor que le hizo Mariano a Nieves, en la finca Esperanza creció el buen humor. En un atardecer de primavera, marido y mujer, por primera vez, fueron al Teatro Milanés de Pinar Río, a ver la obra, Don Juan Tenorio de José Zorrilla, que representaba una compañía española.

- ¡Nieves, no te olvides jamás del año 1893! En Pinar del Río fue inaugurada la primera planta eléctrica. Mira qué iluminación tan bonita tiene el teatro. El alumbrado ya no es a gas, sino eléctrico.

- Yo me acordaré del año 1893 por tu declaración de amor, le dijo besándolo.

- Sabes que desde que salí de mi pueblo no había vuelto a ver una pieza teatral, le dijo al oído, mientras desde su palco contemplaban la escena de Don Juan raptando a Doña Inés.

Cuando salieron del teatro, Nieves le dijo:

- Si tuviéramos una niña, me gustaría llamarla Inés. Juan, si es un varón.

- Estoy de acuerdo con Juan. Pero si es niña, Teresa, como mi madre.

- Los hombres, tenéis que mandar siempre... Pero esta vez te lo concedo. Pues a mí también me gusta Teresa.

Otro atardecer fueron a cenar al Café Restaurante La Perla, un local renombrado que se había inaugurado diez años atrás, donde a ellos jamás habían comido.

Mariano en aquella ocasión le contó a Nieves que muchos años atrás se quedó boquiabierto al entrar por primera vez en el restaurante de Barcelona, Les 7 Portes.

Entonces ella recordó que Ángel un día la llevó a comer un cocido al famoso restaurante madrileño Lhardy. Fueron andando a la Carrera de San Jerónimo. Y al entrar, ella se quedó con la boca abierta de tanto esplendor.

La pareja de enamorados empezó a salir más. Iban a salas de baile y a ver espectáculos y, por consiguiente, entablaron nuevas amistades. El niño Ángel, que ya había cumplido doce años, se quedaba a gusto en casa y pasaba las veladas jugando a cartas con Gabriel y Lucas.

En aquella época en toda la isla iba aumentando la incertidumbre y el miedo de que estallara otra guerra. José Martí, después de haber convencido a Maceo y a Gómez, ambos exiliados en el extranjero, a unirse al PCR, dedicó una ardua labor en el extranjero, para recaudar recursos y aunar voluntades para la gesta libertaria cubana, que duró casi tres años. En abril de 1895, José Martí y sus aliados zarparon hacia Cuba y desembarcaron cerca de Baracoa. Su llegada fue acogida con júbilo por el pueblo y muchos campesinos se unieron a ellos. El poeta la llamó La Guerra Necesaria. Reclutaron a 40.000 hombres y se dirigieron hacia el oeste, donde el 19 de mayo se enfrentaron por primera vez al ejército español, en un lugar llamado Dos Ríos.

El primer día que entró en combate, José Martí fue tiroteado y asesinado en el campo de batalla, mientras dirigía una carga suicida hacia las líneas enemigas. De haber sobrevivido, con toda seguridad hubiera sido elegido presidente de Cuba, pero tras su muerte se convirtió en héroe y mártir.

A pesar de las penurias de la guerra recién empezada, en 1895 en la finca Esperanza estallaron los fuegos artificiales para festejar el nacimiento de Juan, el primer hijo de Nieves y de Mariano. Cuando Teresa Moragas y José Defaus leyeron el telegrama de mariano que les anunciaba el nacimiento de pequeño Juan Defaus Herrera, saltaron de júbilo.

La guerra de Cuba no daba tregua y, Gómez y Maceo, conscientes de los errores cometidos durante la Guerra de los Diez Años, marcharon hacia el oeste, arrasando y quemando todos los campamentos y cuarteles españoles que encontraron a su paso. Las primeras victorias condujeron a una ofensiva continua y en enero de 1896, Maceo penetró en Pinar del Río, mientras Gómez resistía cerca de La Habana. Precisamente cuando Maceo estaba entrando en la ciudad, a pocos kilómetros Nieves dio a luz a José, su segundo hijo.

Cuando Teresa leyó el telegrama que anunciaba el nacimiento de José Defaus Herrera, sintió una gran alegría. Su marido, que acababa de cumplir setenta años, no demostró el júbilo que ella esperaba.

José Defaus Ballesté se iba entristeciendo, llevaba tiempo sintiendo los achaques de la vejez y estaba asustado porque presentía que se le estaba acercando la hora de la muerte. Poco a poco perdió el apetito y empezó a salir menos de casa.

Teresa hacía tiempo que sufría en silencio, pensando en que a los tres hijos que estaban fuera de casa les tocaría bien poco de herencia de su esposo, pero no se atrevía a hablar de ello con él, pues ella no poseía nada, era todo de él. Sin embargo, cuando José empezó a comentar que ya había llegado la hora de hacer testamento, Teresa se atrevió a hablarle de ello:

- Deberías darles algo más de legítima a Mariano, Isidro y Marieta.

- Pero, mujer, yo estoy siguiendo la ley.

- Déjate de leyes, José, y dales más bienes.

- Los tres se han abierto camino en la vida, no necesitan mi dinero. Piensa en Mariano que, casándose con Nieves, se ha convertido en un terrateniente.

- Mariano no es el amo, es Nieves la dueña de todo. Lo mismo le pasa a María, la vivienda es de su marido. Y piensa en que el pobre Isidro vive en una casucha de alquiler. Isidro es el que más lo necesita. A todos les iría bien una bolsa de monedas. La vida da muchas vueltas y no se sabe lo que les puede pasar.

- Bueno, mujer, haré como dices tú: Francisco será mi heredero universal, tú serás la usufructuaria de todos mis bienes y los demás hijos recibirán una buena legítima. ¿Qué te parecen dos mil pesetas?

- Ahora sí que estás actuando bien. Pero quizás a Isidro tendrías que dejarle algo más... A él le hubiera tocado ser el heredero universal si no lo hubiéramos enviado a la mar, le dijo Teresa.

- Déjate de historias. Mi heredero es Francisco.

- No quiero discutir contigo. Pero tienes que reconocer que a Isidro lo hemos tratado peor. Por eso, para poco por aquí. Creo que está resentido con nosotros.

- Estoy tranquilo. Le hicimos un favor, alejándolo de la mala vida.

- La última vez que vino me dijo que se sentía la oveja negra de la familia. Pero esperemos que le vaya pasando todo ese resentimiento. Además tengo miedo de que gane poco haciendo de cubero.

- ¡Qué exagerada! Verás que Isidro va a estar contento con su parte de herencia.

Teresa estaba preocupada por Isidro y durante algunos días dejó de pensar en Mariano, pero pronto, escuchando la radio, se enteró de que al otro lado del Atlántico había empezado una nueva guerra y otra vez se angustió por Mariano. Las noticias de Cuba llegaban distorsionadas. Teresa no llegó nunca a entender lo que realmente estaba sucediendo en la isla.

Mientras en Cuba los españoles respondían con fuerza y atrocidad a los ataques de Maceo y Gómez y empezaban a adoptar tácticas brutales para limitar los movimientos de los rebeldes y debilitar la resistencia clandestina (los campesinos fueron recluidos en campos de concentración y todo aquel que apoyó la rebelión fue ejecutado), en España, por el afán de no perder la colonia, crecía el patriotismo y el apoyo a la guerra. El 7 de diciembre de 1896, los rebeldes sufrieron un duro golpe militar cuando Antonio Maceo fue asesinado al sur de La Habana al intentar escapar hacia el este.

Para entonces, Cuba estaba sumida en el caos: miles de personas habían fallecido, el país estaba en llamas. Fueron meses terribles. A finales de 1897, el gobierno español se encontró con las arcas vacías y con un ejército agotado por las enfermedades tropicales y la resistencia de los rebeldes. Sin embargo, las tropas leales a España seguían controlando todas las ciudades, puertos e infraestructuras vitales de Cuba. El gobierno de los Estados Unidos reclamaba que la guerra afectaba sus intereses y le exigió a España reformas para lograr la paz, pero aquella guerra no parecía tener fin al no conseguir derrotar totalmente a los rebeldes.

En enero de 1898, el acorazado Maine fue enviado a La Habana para proteger a los ciudadanos estadounidenses. La tarea nunca se llevó a cabo: el 15 de febrero de 1898 el Maine explotó inesperadamente en el puerto de La Habana y murieron 266 marineros. Los españoles afirmaron que había sido un accidente, los estadounidenses culparon de la bomba a los españoles, y algunos cubanos acusaron a los Estados Unidos de utilizarlo como pretexto para intervenir. Pese a las distintas investigaciones de los años siguientes, el auténtico origen de la explosión es tal vez uno de los grandes misterios de la historia. Tras el desastre del Maine, los americanos ofrecieron 300 millones de dólares a España por Cuba y cuando este acuerdo fue rechazado, estalló la guerra.

Los estadounidenses hundieron los barcos españoles en sólo cuatro horas frente a la bahía de Santiago de Cuba. La única batalla terrestre importante tuvo lugar el 1 de julio de 1898, cuando el ejército americano atacó posiciones españolas en la colina de San Juan, al oeste de Santiago. Pese a ser muchos menos y contar con armas limitadas y anticuadas, los españoles asediados resistieron dos semanas. Fue el principio del fin para los españoles, que el 17 de julio de 1898 tuvieron que rendirse incondicionalmente ante los americanos.

Mientras España perdía Cuba, José Defaus Ballesté se estaba muriendo en su casa de Malgrat sin poder despedirse de todos sus hijos. Su muerte fue rápida. Un atardecer tuvo un infarto que lo dejó inmóvil en la cama durante veinticuatro horas, su esposa, sus hijos, Francisco y Marieta y Teresita, su nuera, no lo dejaron ni un sólo momento, ni de día ni de noche. En su agonía, Teresa le repetía sin cesar que Mariano e Isidro iban a llegar muy pronto. José fue consciente hasta el final y encargó a su mujer que, en cuanto llegaran, abrazara de su parte a sus hijos y que les entregara los bienes que había dispuesto para ellos.

- Francisco, cuida de tu madre, de tu mujer y de tus hijos. Ahora eres tú el cabeza de familia.

- Lo haré, confíe en mí, padre.

- Y tú, Marieta, no te olvides de tu madre.

- Padre, usted sabe que no voy a olvidar jamás a mi madre, le contestó Marieta.

- Gracias, Teresa, por el amor que me has dado y por haber dedicado toda tu vida a mí y a nuestros hijos. Sin ti no habría sido un padre justo. Ni un marido fiel. Ni un buen cristiano. Hubiera sido un don nadie.

- No digas eso, que me haces llorar, le contestó Teresa, acariciándole la cabeza.

- Pero antes de morir quiero confesarte algo que hice y que quizás tú no lo hubieras permitido... ¿Podéis dejarnos solos unos minutos?

- Claro, padre, le dijo Marieta, saliendo de la habitación con Francisco y Teresita, que estaba empezando a llorar.

- No te vas a creer lo que te voy a revelar.

- ¡No trates de hablar! Me da igual saberlo o no saberlo.
















sabato 7 ottobre 2023

La parra - Cap 13 (en español)

 

El pacto de Zanjón de 1878, entre españoles y revolucionarios, dio por terminada la Guerra Grande. Con excepción de los pocos meses, entre 1879 y 1880, que duró la llamada Guerra Chiquita, a medida que iba pasando el tiempo parecía que el fervor político de antaño se había estancado; sin embargo, José Martí y sus seguidores estaban preparando el terreno para conseguir la independencia de Cuba. Pero el líder carismático cubano tuvo que esperar unos años antes de salir al descubierto, hasta que en abril de 1892 fundó el Partido Revolucionario Cubano.

Una tarde de finales de verano de 1893, Felipe y Olivia entraron en la finca Esperanza en un coche de caballos. Mariano saltó de alegría al ver a sus amigos y dejó de lado sus quehaceres en el almacén de semillas.

- ¡Ya era hora de que aparecieras! ¡Y tú, Olivia, qué guapa estás! Les dijo, abrazándolos.

Los acompañó al jardín y los invitó a sentarse en la sombra, bajo la parra.

- ¿Qué se te ha traído por aquí?

- Pasaba cerca de Pinar del Río y me apetecía hablar contigo.

- A mí también me encantaba volver a veros, le dijo Olivia.

- Ahora mismo mandó a llamar a Nieves.

Mariano llamó a Gabriel, uno de sus más fieles trabajadores. Gabriel, un hombre mulato de unos treinta años, se acercó despacio limpiándose las botas en la hierba y les dio la mano a los invitados. Su rostro estaba curtido por el sol y la intemperie, sus ojos eran vivarachos y su mirada bondadosa.

Nieves, al cabo de pocos minutos, llegó sofocada y corriendo y en seguida se echó en brazos de los recién llegados.

- ¡Qué alegría volver a veros! ¡Y qué sorpresa ! ¡Están muy guapos los dos! Les dijo Nieves.

- Estamos un poco cansados de correr de un lado a otro, ya tenemos ganas de echar raíces. Felipe, cuéntales nuestros proyectos, dijo Olivia.

- Pues si todo va bien, vamos a establecernos en La Habana, les dijo Felipe.

- Me alegro de que finalmente echéis raíces... Perdonad, pero nosotras vamos un momento al jardín, quiero enseñarle mis plantas a Olivia, dijo Nieves, cogiendo a bracete a su amiga.

Con esa excusa, las dos mujeres se alejaron para hablar tranquilas de sus cosas y para que los dos hombres siguieran conversando a sus anchas:

- ¿Cuéntame eso de que os vais a establecer definitivamente en La Habana?

- Pues, yo me estoy retirando del movimiento independentista, le contestó Felipe.

- ¿Qué ha pasado? Le preguntó Mariano, boquiabierto.

- José Martí y sus aliados, después de haber fundado el PRC, se están organizando para luchar contra los españoles. Me han arrinconado porque yo sigo empeñado en obtener pacíficamente la independencia.

- Lo siento, Felipe.

- Estoy desanimado, o mejor dicho, desilusionado, pues creía en José Martí y lo admiraba. Hasta hoy, con su tremendo poder de convencimiento y su carisma personal, ha logrado ejercer una influencia creciente en figuras poco convencidas de la necesidad de un partido para estructurar la nueva revolución…

- Sí, después del fracaso de la Guerra Chiquita, es más prudente. Lleva años escribiendo artículos en la prensa, sobre las miserias que golpean a los más vulnerables y nunca pierde de vista su gran objetivo, que es la independencia de Cuba.

- En 1884 se opuso a una nueva empresa armada defendida por Gómez y Maceo. Se negó a que Cuba reposara únicamente en un poder militar. Y ha tratado por todos los medios de que en el PRC no se filtre el espíritu de discordia y rivalidad entre los veteranos del 68. Proclamó que la independencia sólo se puede realizar con una preparación minuciosa y declaración pública de los objetivos y que es imposible prescindir del necesario trabajo político e ideológico... En eso, estaba de acuerdo con él. Sin embargo, últimamente se está dejando llevar por el ala belicosa del partido.

- José Martí es de admirar. Ha defendido siempre a los indígenas y a las poblaciones negras y, gracias a sus artículos de presa, la historia del continente latinoamericano ya no es desconocida en Europa. Además de denunciar el sistema colonial, también acusa a los Estados Unidos de expansionismo. ¡Pero fundando el PCR, sus objetivos son muy amplios, no sé dónde irá a parar! Dijo Mariano, con voz preocupada.

- Recuerda que el PCR no es un partido político. No tiene fines electorales. Es una asociación política que nació para independizar a Cuba y otras provincias de Ultramar, como Puerto Rico.

- ¿Y tú confiabas en obtener la independencia de Cuba de forma pacífica? Le preguntó Mariano.

- Sí, pero cada vez me parece más imposible. Sobre todo ahora mismo que José Martí está reuniendo recursos para formar un gran ejército que combata contra los españoles.

- ¡Quizás no lleguen a las armas! Aún es pronto para decirlo, le dijo Mariano.

- No te hagas ilusiones. Yo soy el único del movimiento que ha votado por una independencia pacífica.

- ¿Por qué los poetas revolucionarios siempre acaban derramando sangre? Suspiró Mariano.

Felipe se encendió un cigarrillo y contestó:

- Céspedes se vio obligado a ello, pues él, además de luchar por la independencia, tenía otro objetivo: pretendía la libertad de los esclavos. Desgraciadamente, los esclavos que participaron en la guerra fueron carne de cañón... y la mayor parte de los que se quedaron en las plantaciones, como represalia, también fueron maltratados, heridos, violados o matados por los españoles que iban avanzando, para reconquistar las tierras perdidas.

- Hubo una gran matanza, recordó Mariano.

- Pero ahora es distinto, blancos, negros y mulatos podemos preparar juntos peticiones y pleitos, para obtener la independencia. No sé si sabes que en el PRC militan excelentes abogados. José Martí, aunque siempre haya sido un subversivo y los españoles lo hayan echado ya dos veces de Cuba, sabe que no puede repetir los errores que acarrearon tantas injusticias y desastres en la Guerra Grande... Si bien en este momento los españoles se niegan a tratar, hay que esperar, sin recurrir a las armas.

- Entiendo muy bien que tú sueñes con una lucha pacífica, pues yo también lo espero. Pero quizás los dos estemos equivocados y no exista sobre la faz de la tierra una reivindicación sin violencia y sin miles y miles de muertos y heridos, le contestó Mariano.

- No estamos solos, piensa en que el movimiento pacifista en Europa nació en 1819 y que el uso de la resistencia pasiva, como forma de desarrollar la lucha pacífica dentro de la ley, se comenzó a emplear en luchas nacionalistas y constitucionalistas tras las Guerras Napoleónicas... Y que al cabo de unos años se empezó a articular un movimiento pacifista en toda Europa a través de conferencias internacionales. Como la de Bruselas en 1848, impulsada por Elihu Burritt y precursora de la de París de 1849, presidida por Víctor Hugo.

Mariano lo escuchaba embelesado y admirado y le dijo:

- ¡Felipe, tú sabes mucho!

- No me cortes, si no pierdo el hilo. ¿Por dónde iba? Y la conferencia pacifista de Ginebra, en 1867, contó con el boicot de Marx y los marxistas y con la paradójica presencia de reputados defensores de la acción violenta, como Mijail Bakunin o Giuseppe Garibaldi, que hizo campaña para la conquista de los Estados Pontificios en su camino a la unificación de Italia. ¿Te das cuenta de qué paradoja es nuestro mundo?

- ¡Un gran disparate! Dijo pensativo Mariano y después de un par de segundos añadió: - Si en Europa ganara campo la revolución no violenta, quizás en Cuba tendríamos esperanzas de evitar una nueva guerra. Pero me temo que será un proceso muy lento.

Se quedaron callados unos minutos, cada cual pensando en los horrores de la nueva guerra que estaba amenazando a Cuba. Felipe recitó la primera estrofa de la poesía Yo soy un hombre sincero de José Martí.


Yo soy un hombre sincero
De donde crece la palma,
Y antes de morirme quiero
Echar mis versos del alma.


- ¿Uno que escribe una poesía como ésa puede ser belicoso? Terminó diciendo Felipe.

- Creo que José Martí ahora está convencido de que sin lucha armada Cuba no va a conseguir jamás la independencia. Y eso me duele mucho, le contestó Mariano.

- A mí también me duele, después de todos mis esfuerzos para implantar en Cuba tácticas revolucionarias no violentas como, pleitos, peticiones y protestas, me siento impotente.

- ¿Qué vas a hacer ahora?

- Voy a seguir luchando pacíficamente a mi manera. Olivia y yo nos mudaremos a la Habana y allí volveré a ser un simple cochero. Ahora ya no tengo que esconderme, ya nadie se acuerda de mí... Quiero enseñar a leer y a escribir a todos los negros de Cuba. Olivia y yo organizaremos escuelas ambulantes.

- Felipe, Felipe. ¿Por qué no dejas de una vez la política y te vienes a vivir al campo? Aquí también podrías enseñar a los niños, además de leer y escribir, lo importante que es conseguir la libertad e igualdad entre blancos y negros, de forma no violenta.

- Es lo que estoy haciendo, estoy dejando la política, a pesar mío. Pero me desespero pensando en que en 1886 fue promulgada la Ley que acababa definitivamente con la esclavitud y que en Cuba todavía hay mucha discriminación racial. En las haciendas o en las barriadas pobres de las ciudades hay homicidios, sexualidad forzada, abortos, castigos físicos y demás abusos de los blancos hacia los negros.

- No te agobies, tarde o temprano los blancos y los negros serán iguales. Tendrán los mismos derechos. Pero no sé si nosotros lograremos verlo…

- Ojalá, pero... ¡me parece imposible! Le repuso Felipe.

- ¿Y qué me dices de veniros a vivir al campo? Le preguntó eufórico Mariano.

- No sé, no sé, ya lo vamos a pensar, le contestó Felipe con una mueca graciosa.

Las dos mujeres volvieron risueñas y se sentaron junto a sus maridos.

- ¿Qué es lo que vamos a pensar? Le preguntó Olivia a Felipe.

- Mariano me preguntaba si nos gustaría vivir en el campo, le contestó Felipe.

- Pues mira, ahora mismo, aquí al lado hay una finca pequeña, llamada Aguaviva, que está en venta. Y nadie la quiere porque un ala de la mansión fue derrumbada por los rebeldes de la Guerra Grande, le dijo Mariano.

- ¡Qué exagerado eres! No podemos dejarlo todo ahora mismo. ¿Además, de dónde vamos a sacar el dinero para comprar una finca? De momento viviremos en La Habana, Emilia, la viuda de José Sarrá, nos ha ofrecido una vivienda suya a un alquiler muy bueno.

- ¿Cómo está, Emilia?

- Muy bien, heredó una fortuna cuando murió su marido. Y nombró apoderado a Josep, para que se ocupara de la farmacia de La Habana. Josep creo que por aquel entonces ya era socio de la farmacia Reunión. Bueno, el testamento de José Sarrá fue una cosa muy complicada, dicen que en principio les había dejado un buen pedazo de herencia a Ignasi y Josep, los dos sobrinos. Pero Emilia, a través de sus influencias con altos funcionarios, consiguió que los herederos fueran exclusivamente sus hijas. Ignasi, al descubrir que no le había tocado nada, regresó indignado a España. Josep, en cambio, se quedó en la farmacia. Y poco a poco se fue haciendo amo de ella.

- Hacía tiempo que no sabía nada de Josep. Ya te conté en una carta que era un poco extravagante. Tuve problemas con él… sobre todo en la época en que su tío se tuvo que marchar a Barcelona y lo puso al mando de la farmacia.

- Pues no le reconocerías, ha cambiado mucho, parece otro hombre. Todavía lleva la farmacia. Hace más de diez años que la reformó. Emilia tenía confianza en él y se llevaban muy bien. Pero se dice que luego él hipotecó su casa de Malgrat y que le compró la farmacia a Emilia…

- Me alegro.

- También colaboró en la fundación del Colegio de farmacéuticos de La Habana, donde fue presidente durante varios años. Poco a poco fue invirtiendo sus ganancias comprando fincas y se convirtió en un rico hombre de negocios. Si ahora vieras el nuevo establecimiento, te quedarías con la boca abierta. Tienen mucha clientela.

- Estoy contento de que la farmacia tenga tanto éxito.

- Creo que gran parte del mérito es de Celia, su mujer canaria. Al casarse con ella, abandonó su laboratorio, donde estaba encerrado día y noche. Siguiendo los consejos de su mujer, se dedicó primero a modernizar y a ampliar la farmacia y luego a otros negocios rentables, dijo Olivia.

- Ha sido una suerte que su esposa lo alejara de sus probetas y alambiques. De no ser así se hubiera vuelto loco, dijo Mariano, sonriendo.

- La última vez que lo vi me contó que tenía muchas propiedades en la Habana, más de cuarenta casas. Pero tenía miedo de perderlo todo si se proclamara otro Levantamiento. Él, como te puedes imaginar, no es para nada partidario de José Martí. Sin embargo, me dijo que lo admiraba, no por sus ideas revolucionarias, sino más bien por su inteligencia y audacia. Además estaba orgulloso de que fuera hijo de valencianos y de que hubiera nacido muy cerca de su farmacia, en la Calle Teniente Rey.

- Sí, su arraigo a Cataluña, siempre fue exagerado. Casi patológico. No puede estar más de un año sin volver a Barcelona.

- ¿Qué quieres decir con patológico? Le preguntó Olivia.

- Pues que a veces se pasaba de la raya pretendiendo reproducir su patria chica en Cuba. Tú ya sabes que yo amo a mi tierra natal y que me emociono oyendo hablar catalán. Sin embargo, ¡no se puede tratar mal a una pobre cocinera porque no sabe preparar una rebanada de pan con tomate como se hace en Cataluña! No me malinterpretes, me alegro de verdad de que haya superado todas sus manías, le dijo Mariano.

- Te entiendo, Josep siempre ha sido extravagante - calló un momento y una sonrisa cruzó en su rostro – es un hombre inteligente pero está un poco chiflado, dijo Felipe.

- Josep es muy listo, aunque haya otra revolución no creo que deje la Farmacia, le da demasiados beneficios. ¡Qué suerte que tiene al poder viajar a Barcelona! - Se quedó un momento callado y luego añadió: - A mí también me gustaría volver a mi tierra, pero por ahora me parece una cosa imposible, les dijo Mariano bajito, como si se avergonzara.

- Ahora hablemos de vosotros. ¿Cómo os va la vida? Les preguntó Felipe.

- Estamos bien, los dos echamos de menos a Ángel. Pero estamos orgullosos de haber llevado a cabo su proyecto… ¿Por qué no os quedáis unos días en la finca? Les dijo Mariano.

- Olivia, yo te voy a enseñar a hacer pan y a cocer cacharros de barro, le dijo Nieves.

- Felipe, yo te voy a llevar a los campos de cereales para que veas las novedades y mientras tanto vamos a poder hablar de nuestras cosas, le dijo Mariano con un guiño.

- Me encantaría que os quedarais unos días con nosotros, insistió Nieves.

Olivia y Felipe aceptaron la invitación y descargaron del coche su ligero equipaje. Aquella noche cenaron bajo la parra de uva que Mariano había plantado con esmero, pues en el trópico la vid no crecía del todo bien, pero él supo encontrar el microclima ideal para las cepas que le trajo su amigo Miguel en uno de sus innumerables viajes.

Olivia y Nieves charlaron alegres durante toda la cena, descubriendo que se avenían mucho. Nieves se retiró temprano con su hijo, que acababa de cumplir once años. Olivia también se acostó pronto para dejar solos a los amigos.

Los dos hombres siguieron hablando de política y ya de madrugada, cuando iban a levantarse de sendos sillones para acostarse, Mariano le confesó a Felipe que él y Nieves dormían en cuartos separados.

- No te creo, Mariano. No es posible que no te acuestes con tu mujer. Se os ve que estáis enamorados. ¿Pero qué pasa?

- Yo la quiero mucho, pero no me atrevo a dar el primer paso. Tengo miedo de ofenderla y, sobre todo, de que me rechace.

- Mariano, no puedes esperar toda la vida. Tienes que actuar. Mañana mismo tienes que meterte en la cama de tu esposa.

- Lo intentaré. Llevo meses pensándolo, sin actuar.

Dos días más tarde, al amanecer, desayunaron todos juntos bajo la parra. Nieves había horneado pan y Mariano había dispuesto en la mesa plátanos, aguacates, café y una jarra de leche recién muñida. Aquel desayuno fue alegre como una fiesta para los mayores y también para Angelito que pasó un rato jugando a dominó con Felipe. Ya eran la nueve cuando se dirigieron a la caballeriza. Y mientras Felipe subía al coche de caballos, Mariano le guiñó un ojo.

Felipe sonrió tras la señal de su amigo que parecía indicar que finalmente se había acostado con su esposa. Y mientras risueños se despedían en la cancela de la finca, llegó el cartero con una carta.

Mariano, tras ver desaparecer por la verja de la finca el coche de caballos de Felipe, miró detenidamente la carta, con cuidado rasgó el sobre, sacó la hoja de papel y leyó su contenido despacio. Nieves se quedó mirando su rostro, para descubrir si eran buenas o malas noticias.

- Es una carta de Isabel, le anunció Mariano a su esposa.


Santa Clara, 16 de septiembre de 1893.

Querido Mariano,

han pasado varios años desde mi última carta. Te escribo yo y no otra persona por mí (aprendí a leer y a escribir gracias a un cura). Espero que estéis bien de salud, gracias a Dios, yo estoy bastante bien. Bueno, he tenido algunos percances que ahora te voy a contar.

Nunca te hablé de mi hijo Lucas, que ahora tiene diecisiete años, lo tuve antes de conocerte, tras ser violada por un capataz de la hacienda donde trabajaba, Amelia, mi madre. ¿Te acuerdas de que te conté las atrocidades e injusticias que sufrió ella, siendo esclava? Ni siquiera ella supo del niño, lo crió Rogelia, la vieja adivina que a mí también me hizo de madre. Lucas es un chico listo y alegre, aprendió el oficio de carpintero gracias a Tomás, mi marido. Tomás se quedó con él el día de vuestra boda, por eso tú y Nieves aún no lo conocéis. En aquella ocasión no os hablé de Tomás, pues todavía no vivíamos juntos. Por suerte él se encariñó en seguida con el niño. Rogelia, a quien tanto quise, murió hace ocho años y entonces Tomás vino a vivir con nosotros.

Pero ahora mi hijo necesita esconderse por haber insultado a un sargento del ejército español. Lucas es un fugitivo por la ley, pero él no ha hecho nada de malo.

Sé que es pedirte mucho, pero si pudieras encubrirlo en tu finca, yo te lo agradecería toda la vida.

Ahora hará siete años que me casé con Tomás, un buen hombre que ha cuidado siempre a Lucas como a un hijo, pero está delicado de salud. Ahora mismo mi hijo está en la parroquia de Santa Clara, Mosén Román, el que me ha enseñado a escribir, lo ha ocultado en los sótanos de la iglesia, pero de un momento a otro pueden descubrirlo. No puede seguir allí mucho tiempo. Por lo demás, no me puedo quejar, sigo trabajando en la fonda del pueblo, limpio los cuartos, sirvo la comida a los huéspedes. Espero que a vosotros os vaya todo bien en la finca Esperanza. Me gustó ir a vuestra boda. Tu mujer es muy cariñosa, espero que seáis felices. Y tus amigos son muy simpáticos. Un abrazo para ti y Nieves.

Isabel



Mariano le entregó la carta a Nieves. Mientras ella la leía, sonreía, pensando en lo tonta que había sido al tener celos de Isabel, quien en verdad apenas conocía. Habló un rato con ella el día de la boda y realmente le cayó la mar de bien.

Marido y mujer se miraron y, sin necesidad de hablar demasiado de ello, decidieron que Lucas iba a ser el nuevo carpintero de la finca Esperanza.