mercoledì 14 dicembre 2022

La vecchia merciaia

    



Ivan era seduto su un vagone di terza classe. Il treno aveva attraversato monti, valli e grandi distese innevate. Per il lungo tratto di pianura rimase immobile a guardare ossessivamente il monotono paesaggio con la testa appoggiata sul vetro freddo del finestrino, poi fece un lieve sorriso mentre pensava al congedo ottenuto. Dopo, quando la stanchezza si fece sentire, chiuse gli occhi ed entrò in uno strano stato di dormiveglia, si lasciava cullare dal movimento del vagone, ma dopo poco lo svegliavano di soprassalto immagini di volti sofferenti e scene agghiaccianti, caotiche e prive di senso.

Il treno era abbastanza affollato, Ivan se ne stava rannicchiato in silenzio nel suo angolino. Di fronte a lui c’era una vecchia contadina, con le guance rosse e i capelli legati in una treccia intorno alla testa, che gli ricordava sua madre. Era infagottata con vari strati di lunghe gonne, giubbe e sciarpe di lana colorate. Sul pavimento aveva due borsoni, stracolmi di berretti, guanti, calzini e altri capi fatti a maglia, che la donna non perdeva d’occhio, teneva anche una cesta di vimini appoggiata sulle gambe. A un certo punto la donna tirò fuori un pezzo di pane, una foglia di cavolo nero e del formaggio stagionato e cominciò a mangiare.

- Vuole favorire? Sono tutti prodotti del mio orto e delle mie bestie, gli disse la donna.

- Grazie mille, ho delle provviste nello zaino.

Ivan, per ricambiare la gentilezza della donna, ma anche perché ne era un po’ incuriosito, le domandò dove fosse diretta, lei si coprì la testa col cappuccio della giubba e gli rispose:

- A Bryansk, lì c’è un mercato, dove capita molta gente e grazie a Dio ho una sorella che mi può ospitare. Io prima ero una merciaia, ma le cose si sono messe male, adesso sopravvivo a stento con i miei quattro animali e quello che mi offre la poca terra che ho ereditato dal mio povero marito.

Diede un morso al tozzo di pane e dopo un po’ disse:

- E tu dove vai?

- Io vado a Tula, sono di un paesino vicino.

- Immagino che lì ci sia tua madre ad aspettarti! Vuoi una bella sciarpa per lei? Te la metterò a poco.

- Lei pensa che potrebbe piacerle? Domandò Ivan, con un gesto che non si capiva se era di timidezza o di fastidio.

La vecchia percepì il poco interesse per la sua merce che aveva quel ragazzo snello e dal viso affilato, ma non si scoraggiò.

- Questo scialle verde le piacerà, vedrai, le terrà caldo e farà bella figura. Le madri aspettano il ritorno dei figli soldati con ansia e con il cuore rimpicciolito, ma quando entrano in casa saltano di gioia, figurati cosa farebbero se ricevessero da loro anche un dono….. Io molti anni fa avevo un figlio della tua età, nel 1986 è stato chiamato alle armi in Afghanistan, ma non ha fatto più ritorno, è stato colpito da una granata. Pensavo di morire dal dolore, ma ho permesso a mio marito ed a alcuni parenti di confortarmi e di aiutarmi a superare il lutto.

Conservo ancora tutte le lettere di mio figlio, rileggendole è come stare vicino a lui.

- Mi dispiace, disse Ivan e dopo qualche secondo aggiunse: io sono stato ferito da una pallottola che mi ha spappolato il braccio sinistro, perciò ho ottenuto il congedato per inidoneità fisica, altrimenti prima o poi, in questa guerra senza senso, sarei morto anch’io.

Ivan comprò alla merciaia lo scialle verde, morbido ed elegante come una stola di velluto e per un altro po’ la vecchia continuò a parlare della sua merce.

Ivan la ascoltava in silenzio, dopo lei si appisolò e non aprì gli occhi fino a quando il treno cominciò a rallentare.

- Scusi se non sono stato di grande compagnia, lei invece, raccontandomi la sua storia, mi ha fatto un bel dono, la ringrazio di cuore, le disse Ivan a voce bassa, mentre il treno stava arrivando alla stazione di Bryansk.

Ivan aiutò a scendere dal treno la vecchia imbacuccata, che si muoveva con una certa goffaggine. Chiamò un fattorino e fece caricare le borse della donna su un carrellino.

La merciaia per ringraziare il giovane soldato gli regalò dei guanti rossi, che in nessun modo lui voleva accettare, ma la vecchia tanto disse e tanto fece che lui si vide obbligato a prenderli.

La neve cominciava a fondersi il giorno in cui Ivan era partito per il fronte. Da subito aveva cercato di scansare ogni tipo di sofferenza, si era obbligato ad anestetizzarsi per proteggersi da tutte le atrocità che stava vedendo. Si era imposto di non disperarsi e piangere, di guardare avanti senza fermarsi mai, come un automa, insensibile a tutto ciò che succedeva intorno.

Ivan arrivò a Tula all’imbrunire, dovette aspettare nella stazione degli autobus un’ora, prima della partenza della sua corriera. Seduto nella deserta sala d’attesa si coprì il viso con le mani. Il colore rosso dei guanti che indossava divenne una grande macchia di sangue, accanto a un corpo colpito da una granata, su una distesa di terra polverosa. Sentì al petto un dolore insolito, ma non così terribile come quello che sicuramente aveva provato la donna nel perdere il figlio; quella vecchia merciaia aveva smosso qualcosa in lui, quel ghiaccio che aveva dentro forse gli si stava cominciando a sciogliere, pensò. Aprì gli occhi quando un gruppetto di persone entrò nella sala d’attesa, guardò l’orologio e si diresse al binario di partenza.

Dopo mezz’ora il pullman si fermò nella parte più moderna della cittadina, poi fece una sosta in un piccolo borgo, dove le strade erano strette e le case addensate. Ivan fu l’unico a scendere dalla corriera; nella piazza si trattenne qualche minuto per annusare l’aria impregnata di fumo che usciva dai comignoli dei tetti, poi cominciò a camminare verso la strada di fronte, dove c’era il vecchio caseggiato che avevano costruito i suoi antenati. Nessuno seppe del suo arrivo.

La casa aveva una lucina accesa sulla porta. Ivan cercò in tasca la chiave e mentre la metteva nella serratura provò una sensazione gradevole e sgradevole insieme: sì, era finalmente arrivato, ma aveva paura di scontrarsi con i travolgenti cambiamenti, avvenuti in sua assenza. Un sudore freddo lo percorse. Si fece coraggio ed entrò. Trovò la madre vicino all’acquaio, la quale dall’impazienza non riusciva a stare ferma e mentre lo attendeva si stava dando da fare in cucina. Ivan aveva baciato la donna e si era seduto a tavola.

Dopo aver raccontato alla madre alcune delle sue disavventure sul fronte, Ivan si zitti. Non le parlò né dei sui compagni morti, né dei corpi senza vita degli abitanti delle città bombardate, né dei soldati nemici martoriati dal suo esercito, né tanto meno delle atrocità che lui stesso era stato costretto a compiere.

La madre si alzò e finì di preparare la cena. Ogni tanto lo guardava in silenzio. Mentre cenavano parlò del marito. Gli raccontò che un tribunale aveva prorogato di sei mesi la sua detenzione, per aver partecipato a una manifestazione pacifica per denunciare l’invio di militari russi in Ucraina, però rischiava dieci anni di carcere. La donna dovette trattenere le lacrime per non scoppiare in un lungo pianto liberatorio come faceva ogni sera. Ivan cercò di cambiare argomento.

- Parlami delle tue cugine di Ryazan, vi siete sentite di recente?

- Sono venute a trovarmi il mese scorso, sono state da me un bel po’, mi hanno aiutato in tutto, sono state molto care, senza di loro non ce l’avrei fatta. Adesso mi scrivono e chiamano molto spesso.

Nonostante la madre avesse evitato di riferire al figlio la penosa situazione economica in cui si trovava, lui l’aveva capito, vedendo le stanze spoglie di tappeti e di alcuni mobili. Dopo cena si sedettero vicino al camino in silenzio, osservando le fiamme e ascoltando il lento crepitio dell’enorme ceppo sul fuoco.

La sua cameretta era rimasta come lui l’aveva lasciata, si sdraiò sul letto, ma non riuscì a prendere sonno. Rimuginò tutta la notte su pensieri ingarbugliati e ossessiviSi alzò all’alba. La madre era già in piedi e si arrabattava in cucina per preparare la colazione. Ivan si ricordò del regalo. Andò a prenderlo e mentre la madre, di fronte ai fornelli, aspettava che il caffè fosse pronto, lui le appoggiò lo scialle verde sulle spalle. La donna scoppiò a ridere e a piangere dalla sorpresa ed dall’emozione. Ivan abbracciò la madre come non lo aveva mai fatto prima.

- Non sai quanto sono felice di averti a casa, disse la madre, aggiustandosi lo scialle.

- Non dire ancora a nessuno che sono ritornato, supplicò Ivan alla madre.

Poi indossò il cappotto, berretto e guanti, deciso ad andare da Sergej, il suo amico d’infanzia. Durante l’adolescenza entrambi erano stati esclusi dal gruppo di ragazzi del quartiere ed erano diventati inseparabili. Uno era troppo timido e l’altro troppo basso, ma dei loro difetti ne avevano fatto una virtù. I pomeriggi si aiutavano a fare i compiti, giocavano a scacchi e parlavano dei libri di avventure che avevano letto, mentre gli altri ragazzi scorrazzavano per il paese.

Sergej aveva un bel viso e folti capelli ricci, il suo corpo era ben proporzionato, ma molto più piccolo della media. Aveva uno sguardo dolce e gentile, nonostante le burle subite dai suoi coetanei per la sua bassa statura. Era il figlio minore del falegname del paese e da quando suo fratello era stato chiamato al fronte, lui aveva preso le redini della falegnameria. Era bravo a fare mobili, nessuno sapeva da dove gli venisse quel talento di ebanista. Il padre, come prima suo nonno e ancora prima suo bisnonno, costruiva e accomodava le porte e le finestre di tutte le abitazioni della zona.

- Ho scampato la guerra per essere troppo basso, ripeteva a tutti Sergej, da quando la Russia aveva iniziato a chiamare migliaia di soldati alle armi.

Mentre Ivan camminava sentì una sorta di vertigine che lo obbligò a sedere su una panchina. Si coprì il volto con le mani, il colore rosso dei guanti di nuovo si trasformò in macchie di sangue sulla neve immacolata, poi si portò le mani alle orecchie per non sentire il rumore delle bombe e dei missili che distruggevano dappertutto.

- Sto impazzendo o forse sto aprendo finalmente gli occhi alle atrocità che non volevo vedere? Si domandò.

Si accese una sigaretta e pensò a quanto fosse invecchiata sua madre. In tutti quei mesi non le aveva scritto nemmeno una lettera, solo ogni tanto lei aveva ricevuto una sua breve telefonata.

- L’ho fatta soffrire troppo, senza mai darle supporto, disse con un nodo in gola e cominciò a piangere.

Per alcuni giorni ripeté le stesse cose: la mattina si alzava dal letto senza aver chiuso occhio, faceva colazione, usciva di casa e si sedeva sulla panchina a rimuginare torbidi pensieri, ma non riusciva a farsi vivo con l’amico. Quando sentiva che il freddo pungente gli entrava dentro le ossa, ritornava a casa e si coricava di nuovo per cercare di dormire. I rumori soffici provenienti dalla cucina lo cullavano e per un po’ si addormentava, ma dopo poco si svegliava. Fino all’ora di pranzo restava a letto in uno stato di continua dormiveglia. Il pomeriggio vagava fuori del paese, ma quando il sole tramontava andava alla legnaia a prendere ciocchi di legna per accendere il camino. La sera dopo cena faceva compagnia alla madre davanti alla televisione, mentre lei lavorava a maglia.

La madre cercava di non fargli domande, ma soffriva vedendolo in quello stato di perenne inquietudine.

Una mattina un bambino si sedete accanto a lui.

- Come mai non sei a scuola? Gli domandò Ivan.

- Il maestro è malato e oggi cominceremo le lezioni un’ora dopo, ma io sto meglio fuori che a casa.

- Anch’io sto meglio fuori.

Dopo alcuni giorni il bambino si sedette di nuovo accanto a Ivan e gli disse:

- Mio padre da quando è ritornato zoppo dall’Ucraina è molto strano, si agita e a volte piange. Sta gran parte del giorno a letto e la notte beve vodka da solo in cucina. Lui pensa che io non mi sia accorto di niente, ma ho ben capito il male che la guerra ha fatto a lui e alla nostra famiglia.

Ivan, commosso della semplicità con cui il bambino aveva parlato del disagio dei reduci, si fece forza e disse:

- Ci vuole tempo a riprendere la vita di tutti giorni, dovete avere pazienza, lui sta male e deve uscire da questo incubo che ha vissuto; anch’io sono appena tornato a casa dopo aver combattuto in questa guerra assurda e inutile e, come tuo padre, ho difficoltà a inserirmi. Vorrei tanto andare dal mio amico falegname, ma tutte le mattine rimango appiccicato a questa panchina. Mi vergogno di essere così vigliacco, ma ogni volta che mi sono deciso, mi prende una paura indescrivibile, comincio a tremare e ritorno a casa.

Il bambino rimase in silenzio, come se stesse elaborando quello che gli aveva raccontato Ivan. Poi all’improvviso domandò?

- Eri ufficiale come mio padre?

- No, io ero un soldato semplice.

- Anche mio padre ogni tanto trema, ma quando mi avvicino sembra che la mia presenza gli dia fastidio, a volte urla e mi spaventa, allora corro a nascondermi fuori casa. Mia madre piange quando lo vede così, poi stette in silenzio e dopo alcuni minuti aggiunse: e se andassimo insieme dal tuo amico falegname?

Ivan non si aspettava quella proposta e gli rispose:

- Ci penserò.

Un pomeriggio in cui Ivan camminava lentamente per un boschetto vicino a casa, scoprì di avere il primo pensiero positivo, dopo tanti mesi: era un barlume d’intenzione rivolta al suo futuro. Si meravigliò di quell’inizio di luce che cominciava ad illuminarlo.

La mattina dopo Ivan disse al bambino che si sentiva pronto per andare dal falegname. Ivan gli diede la mano e andarono insieme da Sergej. Il giovane ebanista fu molto contento di rivedere l’amico che, non avendo avuto da tempo notizie sue, temeva che fosse caduto sul fronte. Il falegname ascoltò le vicissitudini di Ivan mentre fumava una sigaretta insieme a lui. Dato che la falegnameria stava andando piuttosto bene, prima che Ivan glielo chiedesse, Sergej offri un lavoro all’amico.

Ivan cominciò a dormire la notte, faceva la spesa e pensava a tutto della casa. Riuscì anche a recuperare i tappeti e i mobili che erano stati dati in pegno. Una sera si sedette alla sua vecchia scrivania e scrisse per prima volta una lettera al padre. Il pomeriggio, dopo il lavoro, cominciò a frequentare i corsi della facoltà di Magistero di Tula, per riprendere i suoi studi, interrotti quando dovette partire per la guerra.

Dopo diversi mesi Ivan riuscì a diventare maestro elementare. Gli diedero una cattedra in un paese sperduto della provincia e dovette lasciare il lavoro nella falegnameria. Una mattina salutò Sergej, abbracciò la madre e partì. Prese subito uno dei suoi libri, ma non lo aprì, guardò a lungo dal finestrino e vedendo cadere i primi fiocchi di neve della stagione, sentì per prima volta dopo tanti mesi un gran benessere e piano piano si addormentò.






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