Ogni mercoledì viene a pulire, Tamali, una ragazza
dello Sri Lanka, che da alcuni mesi mi aiuta nelle faccende
domestiche. Le lascio la chiave nella cassetta della posta perché a
quell'ora in casa non c'è nessuno. Verso mezzogiorno, alla fine
delle mie lezioni, per non intralciare il suo lavoro, vado a fare la
spesa al mercato, quindi quando ritorno Tamali ha finito di mettere a
posto. La saluto, scambiando con lei qualche parola.
Quel mercoledì di fine giugno, erano appena conclusi i
miei impegni lavorativi, quindi ero rimasta a casa. Mi sono svegliata
presto con un sacco di energia: ho spolverato le finestre, i
davanzali e le persiane, prima che Tamali arrivasse. Dopo abbiamo
pulito insieme il frigo con acqua e aceto e abbiamo sistemato per
bene le poche cose contenute in esso: un'insalata, due pomodori, tre
vasetti di yogurt, un cartone latte e un pezzo parmigiano.
- Oggi devo fare la spesa, ho pensato.
Mentre svuotavamo il congelatore mi ha raccontato che
sua madre, sulla cinquantina, ancora residente nello Sri Lanka,
vorrebbe trasferirsi in Italia per raggiungerla. Poi mentre asciugava
con cura i cassetti del frigo mi ha detto:
- Nel mio paese non c'è lavoro, siamo tutti molto
poveri. Il governo cingalese non vuole fare uscire tutte le persone
che lo richiedono. Sono migliaia e migliaia che si trovano nella
situazione di mia madre. Lei dovrà aspettare il visto, un anno o
più, anche se l'Italia ha già detto di si
- Da quanto è che manchi del tuo paese? Le ho chiesto,
mentre con una spugnetta levavo il ghiaccio, che piano piano si
scioglieva e si staccava dalle pareti del surgelatore.
- Sono tre anni che non ci vado. Avrei tanta voglia di
andarci, ma i biglietti aerei sono troppo cari e noi siamo in tre.
Forse nel 2018 potremo ritornarci.
Poi mi ha confidato che, nonostante le difficoltà
incontrate in Italia, si riteneva una donna fortunata, perché, suo
marito era riuscito a trovare un lavoro fisso, entrambi avevano
ottenuto il permesso di soggiorno, era nata, tre anni prima, la loro
bambina e lei due volte la settimana lavorava come donna delle
pulizie.
Appena Tamali è andata via, mi sono seduta sul divano e
invece di cercarmi innumerevoli cose da fare o di programmarmi la
giornata, come faccio di solito, sono stata ferma per un bel po',
pensando alle parole di quella ragazza. Poi ho aperto il libro che
avevo comprato qualche giorno prima. Uno dei personaggi del romanzo
era un ragazzo africano, che viveva in una casa-famiglia, ma che
durante il fine settimana veniva ospitato dalla protagonista, una
donna infelice, appena abbandonata dal marito. Entrambi cercavano di
aiutarsi, questo mi ha commossa.
Ho finito di leggere quel libro tre giorni dopo, in
treno, durante il viaggio di ritorno da Livorno. Ma cominciamo
dall'inizio:
Era sabato mattina e mentre stavo passeggiando per il
centro della città, con Anna, un amica che aveva studiato con me
all'Università, ma che appena laureata si era trasferita a Bari, ho
ricevuto una chiamata di Eleonora, un'altra amica di vecchia data.
Anna in quei giorni era a Firenze per partecipare a un
convengo di Micropaleontologia e quindi era venuta a trovarmi. La
mattina abbiamo fatto una lunga passeggiata per i giardini di Villa
Bardini e mentre camminavamo ci siamo raccontate tante cose. Mi
sembrava che il tempo non fosse passato, la sentivo molto vicina,
nonostante fossero trascorsi diversi anni dall'ultima volta che
c'eravamo incontrate. Mentre scendevamo da Costa San Giorgio i nostri
discorsi sono volati via verso le vacanze estive; lei mi ha parlato
entusiasta della bellezza delle isole Tremiti, dove andava spesso col
marito, io invece le ho raccontato della prima volta che eravamo
andati, U. ed io, all'Isola d'Elba, era primavera ed e tutto era
fiorito.
Mentre parlavo ad Anna di Eleonora, perché era stata
lei a farci scoprire l'isola, è suonato il mio cellulare.
Che coincidenza! Era proprio la mia amica elbana, la quale mi ha fatto sapere
che suo padre novantenne, era morto a Livorno due ore prima. Ero
dispiaciuta, ma udendo la voce serena di Eleonora mi sono sentita un
po' sollevata.
Anna
ed io, ci siamo incamminate verso un piccolo ristorante nel quartiere
di Santa Croce, non lontano da casa. Mentre
mangiavamo un delizioso piatto a base di verdure, la mia amica mi ha
parlato della sua ricerca, a cui dedicava corpo e anima,
sui nannofossili
calcarei e sulle le loro applicazioni paleoclimatiche.
Dopo
quelle parole piene di entusiasmo, mi
è venuto in mente un ricordo lontano del padre di Eleonora e ho
deciso che l'indomani sarei andata a porgere l'ultimo saluto alla salma.
Avevo parlato a lungo con il padre di Eleonora una sola
volta. Era il mese di agosto di 1989, lui era venuto a prendermi a
Cavo, dove ero arrivata in aliscafo da Piombino. Ero incinta di mia
figlia, mio marito era a Budapest per un seminario ed Eleonora mi
aveva invitata a passare alcuni giorni nella loro casa di famiglia.
Il padre di Eleonora, mentre guidava, mi raccontò della
sua passione per la natura, gli strati rocciosi, i fossili e la
morfologia del terreno, soprattutto quella dell'Isola dell'Elba, dove
era nato. Quel giorno capii che era un grande uomo e anche il motivo
per il quale, qualche anno prima, si era iscritto, nonostante il suo
lavoro impegnativo, alla facoltà di Geologia di Pisa.
Il giorno dopo, durante il viaggio in treno, ho
continuato a leggere il libro del ragazzo africano che conviveva con
la donna infelice, ma spesso alzavo la testa e guardavo le persone,
cariche con voluminosi borsoni da mare, che passavano frettolose.
A un certo punto una ragazza con una coda di cavallo e
pantaloncini corti, mi ha chiesto se le tenevo le sue cose, perché
doveva andare in bagno e non si fidava di lasciarle incustodite. Mi
ha dato l'impressione che fosse una ragazza triste, sembrava molto
sola. Mi sono immaginata che si fosse sforzata di uscire di casa
quella mattina, nonostante nessuno l'aspettasse. Il contenuto della a
sua borsa di paglia era in disordine, come se avesse buttato dentro
in fretta tutto ciò che poteva esserle utile sotto l'ombrellone. Tra
le creme, spazzole, occhiali da sole, asciugamani e fogli di giornali
stropicciati, ho visto spuntare un libro.
E' ritornata dopo un bel po':
- La ringrazio tanto. Scusi se ci ho messo troppo. Il
bagno vicino era fuori servizio e quello dell'altro vagone era
occupato, mi ha detto sorridendo.
- Non ti preoccupare, io scendo a Livorno, non mi hai
assolutamente disturbata.
- E' la prima volta che viaggio da sola e mi sento un
po' a disaggio, ha detto la ragazza mora, come sollevata di aver
detto a qualcuno della sua solitudine.
- I libri possono esserci di gran compagnia. Le ho detto
io.
Dopo entrambe ci siamo messe a leggere, ognuna il
proprio romanzo.
Nell'obitorio, dove era esposta la salma del padre,
Eleonora, sua madre e sua sorella sono state molto affettuose con me.
Nel viaggio di ritorno, tra la stazione di Empoli e
Firenze, ho finito di leggere il libro; l'ho accarezzato e poi l'ho
depositato nella mia borsa come se fosse un piccolo tesoro.
Guardando dal finestrino, ho visto scorrere lo stesso
paesaggio che vidi la prima volta che viaggiavo in treno da Barcelona
a Firenze. Ho pensato che, nonostante gli anni trascorsi, mi sentivo
la stessa donna di allora, sempre seduta sul treno con un libro in
mano, ma forse un po' diversa, perché avevo imparato ad amare, oltre
che gli altri, anche me stessa.
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