L'anno
scorso, in un pomeriggio caldo di fine estate, mentre davo una
occhiata ai libri, esposti nella piccola libreria del mio paese,
della costa catalana, mi è caduto l'occhio su un titolo di un
romanzo di una scrittrice spagnola un po' bizzarro:
Los estados carenciales1.
Los estados carenciales1.
Comprai il libro subito e lo cominciai quella stessa notte. Ogni personaggio
mi si era avvicinato lentamente. Forse il fatto che ognuno, alla
sua maniera, cercasse ostinatamente la felicità, senza riconoscere
che l'avevano a portata di mano, mi aveva molto colpito.
Il
personaggio principale, impartiva lezioni di felicità in una
Accademia che aveva aperto da poco, perché anche lui era in cerca
di felicità. Con ottimismo sperava che, aiutando persone che si
credevano infelici, forse si sarebbe salvato dal suo disastro
coniugale.
Mi colpì molto la frase che il maestro pronunciò:
-
Si può andare a braccetto con la felicità perché è a portata di
mano di tutti noi.
e poi continuò:
e poi continuò:
- Dovete
essere felici per il solo fatto di essere nati sulla Terra, un
piccolo pianeta nella periferia della nostra galassia, che possiede
un'atmosfera e ha molta acqua allo stato liquido. Avreste potuto
trovarvi in qualsiasi punto del pianeta, invece avete avuto la
fortuna di nascere in Europa, di avere un lavoro e la pelle chiara.
Da
allora ogni mattina mentre mi facevo la doccia anch'io pensavo a
quanto ero fortunata con tutto quello che avevo, soprattutto in quel
momento con quell'acqua calda e benefica.
Per
una serie di coincidenze, in quei giorni, sono capitata in un centro
di ascolto. Sono arrivata con un quaderno per prendere appunti.
Avevo capito che un esperto attraverso delle conferenze ci avrebbe
spiegato come stare bene con se stessi e con gli altri, dato che
questa era la tematica degli incontri. Invece mi sono trovata a far
parte di un cerchio formato da persone sconosciute. Abbiamo dovuto
parlare di noi, guidati da uno specialista che conduceva il lavoro
di gruppo.
Non
avevo mai percepito tanta infelicità o meglio non mi era mai
capitato di stare con tante persone che erano o si credevano
sventurate.
La
prima a parlare è stata una fornaia grassoccia, che ci ha detto che
aveva un fratello tossicodipendente. Dopo ha preso la parola un
professore di Matematica, che ci ha fatto sapere che sentiva un gran
disagio in classe davanti alla scolaresca ed era preso dall'ansia
ogni mattina quando entrava a scuola. Una donna che aveva due
bambini piccoli era disperata, dato che non riusciva a vivere la
propria vita. Solo vivo quella degli altri, diceva. Dopo, un
bell'uomo, molto elegante ha cominciato a dire che si sentiva fallito
sia nella vita che nel suo lavoro di architetto da quando si era
separato dalla moglie. I suoi discorsi logorroici sprigionavano molta
solitudine, ho pensato. Accanto a me c'era una ragazza, era la più
giovane del gruppo, ma era la più triste, diceva che non aveva
speranze e che era delusa di tutto e di tutti.
Quando
è toccato parlare a me, ho riferito quello che diceva il
protagonista del libro sulla felicità.
Quasi
tutti mi hanno guardata con una strana espressione, forse non
riprovevole, ma indolente verso il mio discorso, che per loro era
troppo banale.
La
volta successiva però, la ragazza mi si è avvicinata e mi ha
ringraziato per le parole sulla felicità che avevo detto, infine
mi ha sussurrato che anche lei era meno infelice quando riusciva ad
apprezzare le poche cose buone che aveva e che molti sulla Terra non
avrebbero mai raggiunto.
Uscendo
dal centro ascolto la ragazza mi ha invitato a prendere una tazza
di tè in un bar vicino.
Mi
ha raccontato che si era sposata molto giovane con un uomo più
grande di lei, amico di suo padre, per poter abbandonare il piccolo
paesino del sud dove viveva con la sua famiglia. Subito mi ha fatto
partecipe della sua triste storia di violenze e maltrattamenti da
parte dal geloso marito tutte le volte che rientrava a casa ubriaco. Dopo
pochi mesi aveva scoperto di essere incinta, all'inizio non voleva
quella gravidanza, ma col passare dei giorni si era convinta di
tenere il bambino, nonostante suo marito, avesse ricominciato a
maltrattarla. Mentre lei parlava mi è
venuta in mente Anita, la llevadora2
del mio paese.
Anita,
quando ero piccola, veniva tutti giorni a casa nostra, per fare una
puntura a mia madre. Seduta in cucina sentivo raccontare le
storie di persone infelici che aveva incontrato durante la guerra
civile, quando lei e suo marito vivevano in Andalusia.
A
volte era tale la loro miseria, le loro pene, e tanta la disgrazia
in cui erano cadute, che non avevano nemmeno la forza di sentirsi
sfortunate, diceva.
La
guerra civil
era cominciata da molti mesi e non si vedeva la fine.
La llevadora
lavorava in un piccolo ospedale, in parte
distrutto dalle bombe, che si trovava nella zona roja3,
difesa dai repubblicani. Doveva far nascere i figli di donne
sfortunate, che avevano perso tutto, il marito, la casa, la famiglia,
donne che a malapena volevano continuare a vivere.
Perché
c'era questa guerra tra fratelli? si chiedeva Anita.
La
gente diceva che se avessero vinto
i repubblicani, ci
sarebbe stata più libertà e giustizia. Molti speravano che
dopo la vittoria tutti sarebbero diventati uguali.
Non ci saranno ne ricchi, ricchi, né poveri, poveri,
nella nuova Spagna, si augurava Anita.
Era
un bell'ideale da perseguire, ma ogni giorno le cose peggioravano.
Los nancionales4
bombardavano
i
centri
abitati
e fucilavano innocenti. Il bando
republicano era
sempre più diviso e i begli ideali non sempre erano chiari a tutti.
Alcuni dirigenti rojos,
soprattutto quelli più estremisti, condannavano la Chiesa, la
ritenevano uno dei mali della Spagna. Alcuni esaltati volevano
sterminare il clero, facendo ammazzare preti, monache e frati.
Dopo alcuni giorni, Anita sentì alla radio che erano
state incendiate molte chiese e alcuni conventi.
La guerra era ingiusta, sempre erano i più deboli a
farne le spese, si disse Anita.
Le
settimane passavano e la pace era sempre più lontana. Un giorno di
novembre, non molto freddo, la llevadora,
fu impressionata dall'arrivo di una giovane monaca, suor
Eulalia, che si presentò
all'ospedale con una gran emorragia. Era incinta di quasi otto mesi.
Era stata violentata da un miliziano atroce, spietato e
fortemente anticlericale, ma
soprattutto ubriaco
di infelicità e di vendetta, che aveva agito di nascosto dai suoi
superiori. Da allora suor Eulalia
si era rifugiata nelle campagne vicino al monastero incendiato, con
la madre badessa e una contadina che prima lavorava nel loro
convento. Era la contadina a cercare il cibo e un tetto dove
dormire ogni giorno. Ma la madre badessa era molto anziana e non
superò l'autunno. Da quel giorno anche suor Eulalia
volle morire.
La giovane suora piangeva, era smarrita. Anita
l'accarezzò, la lavò e le disse che il bambino era ancora vivo.
Suor Eulalia si calmò grazie alle mani dolci di Anita.
La
llevadora
raccontò a suor Eulalia,
che suo marito Anselmo era finito nel frente
del Ebro5,
ma che
adesso era fuori pericolo, in una caserma di Zaragoza, grazie al
suo mestiere. Anselmo era stato sempre il barbiere del paese. In
fine le disse che potevano stare tutti insieme nella loro casa.
Eulalia aprì gli occhi, guardò Anita e capì che era
stata fortunata, a trovare quella donna. Per la prima volta dopo
tanto tempo, volle ascoltare nel suo grembo, le piccole e dolci
pedate di suo figlio.
Dopo
molte ore suor Eulalia,
diede alla luce un maschio, che chiamarono Agustìn. Il parto fu
molto lungo e travagliato.
Il bambino aveva tanta voglia di nascere, che all'ultimo
momento, quando il collo dell'utero della madre era quasi totalmente
dilatato, conficcò il suo volto nel canale che lo portava verso la
luce.
- Questo bambino si presenta di faccia, sarà un parto
difficile, devo fare qualcosa, si disse Anita.
La
suorina si mise a quattro zampe, seguendo il proprio istinto e
soprattutto i consigli di Anita che le diceva:
- arrodìllate, arrodìllate6 .
La testa del nascituro uscì miracolosamente.
- arrodìllate, arrodìllate6 .
La testa del nascituro uscì miracolosamente.
Quella nascita aveva fatto capire a suor Eulalia che a
volte la felicità, quando sembra impossibile da raggiungere è a
portata di mano, basta prenderla a braccetto.
La ragazza aveva ascoltato con molto interesse la storia
di Anita, poi mi aveva confessato che ancora non aveva
informato nessuno della sua gravidanza e che voleva abbandonare il
marito perché aveva una gran paura di perdere il bambino.
L'ho ringraziata per aver avuto fiducia in me e le ho
consigliato di confidarsi con sua madre che forse era l'unica
persona che la poteva aiutare.
All'improvviso si era alzata e allontanandosi verso la
porta, si è girata e si è scusata dicendomi che doveva andare
via.
- Dove vai così in fretta, le ho detto.
- Vado
a prendere la felicità prima che scappi via.
La ragazza non era tornata al centro di ascolto e non ho
saputo più niente di lei, ma a volte l'immagino che passeggia per le
strade a braccetto con la felicità
Firenze marzo 2011
1 Mancanze
affettive
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