Quell’estate
non troppo calda ero stata nominata membro interno per esami di
Maturità nella scuola dove lavoravo da anni. Essendo, dopo le
interminabili prove scritte e orali, piuttosto stanca la notte mi
addormentavo subito e dormivo di una tirata fino a che la coda
sfilacciata di un sogno non mi svegliava.
Ricordo che
una di quelle notti sognai che mia madre soffriva di demenza senile e
che non ci riconosceva. Aveva un bel viso, ogni tanto sorrideva a
modo di tic, ma spesso si agitava e diceva che voleva ritornare a
casa. Noi non ci stancavamo di dirle che si trovava nella casa dove
era nata, dalla quale non si era mai allontanata.
Ho detto a
mio padre che volevo cercare zia Margherita, la sorella di mia madre,
alla quale era molto legata. Lui mi ha risposto che sarebbe stato
difficile trovarla dato che abitava molto lontano.
L'ho cercata
in una città sconosciuta piena di gente che camminava veloce e non
guardava nessuno; lei, come il
suo solito, mi ha assecondata nella richiesta che le ho fatta di
recarsi da mia madre.
Dopo un
lungo viaggio in treno siamo arrivate di fronte alla poltrona dove
mia madre trascorreva le sue giornate, incredibilmente ha
riconosciuto subito zia Margarita e l'ha riempita di baci, piangevano
entrambe dalla felicità.
Dopo mia
madre ha cominciato, all'inizio tranquilla e poi agitata, a parlare
della seggiolina della sorella, morta a tre anni di polmonite
prima della sua nascita che si chiamava Teresa come lei.
Quella
seggiolina era venerata da mia nonna, la teneva come una reliquia. Le
sua figlie non potevano né sedersi sopra né giocarci.
Alla fine
mia madre ha dato uno schiaffo a una donna che mi è sembrata Anita
la llevadora1,
ma il suo volto era piuttosto sfocato. Poi ha cominciato a gridare
come una pazza dicendo che voleva sedersi nella seggiolina. Mia zia
le ha detto che l'avrebbe cercata in soffitta, ma che mentre
aspettava poteva cominciare a sgranare fagioli. Teresa ha smesso
subito di sbraitare.
A questo
punto mi sono svegliata e durante gran parte della giornata,
soprattutto dopo gli esami, quando la mia mente ha potuto viaggiare
da sola, ho pensato a lungo a quello strano sogno.
Le due
sorelle erano nate negli anni venti. Il loro padre, mio nonno,
possedeva dei campi a pochi chilometri dal paese, ereditati dal ramo
paterno, che coltivava con poca convinzione. Quello che invece lui
sapeva fare bene era commerciare: comprare e rivendere i prodotti
degli altri contadini. La moglie, mia nonna, era una donna molto
attiva, la mattina andava al mercato a vendere le uova e i polli che
allevava e il pomeriggio raccoglieva gli ortaggi che suo marito aveva
seminato.
Lei, a
differenza di mio nonno che avrebbe coltivato esclusivamente patate,
era aperta alle novità che spesso le portava il fratello che era
emigrato nella zona della huerta valenciana2.
Fu lei a consigliare mio nonno di seminare fagioli.
Mia madre,
come mio nonno non amava la vita di campagna, desiderava sposarsi
giovane per poter andare presto ad abitare a Barcelona. Ma la vita da
muchas vueltas3
e quindi sposandosi con mio padre è rimasta suo malgrado legata ai
campi di fagioli.
Teresa ben
presto ebbe una brutta malattia polmonare, dalla quale era
miracolosamente guarita, ma con un polmone molto compromesso, quindi
la sua salute era stata sempre molto cagionevole. Forse per questo
era spesso pessimista e di cattivo umore, ma negli ultimi anni della
sua vita la salute era migliorata anche se era sempre più magra.
Via via che perdeva chili il suo carattere diventava più dolce. Era
più affettuosa con tutti, sembrava che volesse finalmente godersi le
piccole cose della vita.
Margarita
aveva due anni meno di Teresa, ma era più alta e robusta. Vedeva
sempre le cose con ottimismo. Il suo grande volto e il dolce sguardo
emanavano salute. Non mi ricordo di averla mai vista malata. Era una
donna molto tranquilla e affettuosa, ma la sua maggiore virtù era la
santa pazienza che aveva con tutti.
Aiutava
chiunque le chiedesse un favore. Le donne del vicinato, quando
avevano faccende importanti da svolgere, le consegnavano i loro
piccoli figli e lei li custodiva con venerazione. Ricordo che quando
eravamo piccoli, d'estate, la mattina ci portava, me e mio fratello
con le sue figlie ed altri ragazzi del quartiere, al mare.
La sera a
lei non piaceva molto uscire di casa, ma quando c'era un funerale,
anche se non conosceva molto bene il defunto cercava a tutti costi
di assistere alla cerimonia funebre.
In chiesa si
sedeva all'ultimo banco e coperta con la mantellina4
pregava per l'anima della persona scomparsa. A volte, quando la folla
era già sparita, andava al cimitero, poi tornava a casa e preparava
la cena, che era quasi sempre a base di verdure.
Spesso le
sue figlie ed io, prima bambine e poi ragazzine, giocavamo sul
marciapiede della strada o nel giardino con le nostre bambole, ma se
per qualche motivo entravo in casa di mia zia, la vedevo
indaffarata a pulire o a preparare la cena. Alcuni giorni era più
tranquilla e la trovavo seduta a cucire o a sgranare fagioli. Notavo
che sorrideva ed era più ridanciana.
- perché
sei così felice oggi zia?, le chiedevo
- perché
il funerale che hanno offerto al defunto questo pomeriggio è
stato molto bello, mi rispondeva sempre.
Poi mi
raccontava alcuni aneddoti della vita della persona che era mancata.
Rimanevo incantata da quelle storie a volte ingarbugliate e piuttosto
bizzarre e mi dimenticavo delle compagne di gioco.
Mi sedevo
intorno al tavolo e l'aiutavo a sgranare fagioli. Zia Margarita
sempre cercava di trovare delle qualità nelle persone di cui mi
parlava. Sento ancora la sua voce che si mescolava con il rumore che
i semi bianchi facevano, staccandosi dal baccello.
Gli anni
trascorrevano in fretta e i giochi infantili nella strada erano
finiti, ma ricordo che, anche quando mi sono trasferita a Barcellona
per studiare all'Università, andavo spesso a trovare zia Margarita.
Le due
sorelle erano molto unite dato che avevano trascorso tutta la vita
insieme, anche perché dopo essersi sposate, le loro case distavano
solo pochi metri. La prima a maritarsi era stata mia madre la quale
aveva dovuto, contro sua volontà, restare nella vecchia casa di
famiglia. Dopo qualche anno Margarita si era sposata con un
giovanotto che abitava nella stessa strada.
Mia zia
amava molto la campagna e d'estate dopo pranzo talvolta si recava a
piedi nei campi di mio nonno per la raccolta di fagiolini. Si
trovava bene insieme alle donne andaluse che lavoravano come
braccianti nei campi. Ascoltavano la radio o cantavano mentre i loro
cesti si riempivano di fagiolini. Alla fine versavano il raccolti in
grandi sacchi verdi, scartando i baccelli più secchi, che mia zia
raccoglieva perché racchiudevano un vero tesoro per lei.
D'inverno
ogni giorno le due sorelle si riunivano nella nostra casa a metà
pomeriggio. Quando tornavo da scuole, le trovavo che parlavano
fitto, fitto.
Mi madre mi
diceva appena entrata:
- lavati le
mani e fai merenda
Mentre
facevo i compiti sul tavolo di cucina sentivo mia madre che si
lamentava e la sorella con la sua dolce voce cercava di consolarla
da tutti i suoi malanni.
Alla fine
degli anni settanta, dopo aver conosciuto U., ho deciso che sarei
andata a studiare in Italia. Quando l'ho fatto sapere a zia Margarita
mi ha detto afflitta:
- non
partire, non abbandonarci. Con chi parlerò poi dei miei defunti?.
Neanche i
miei genitori erano contenti della decisione che avevo presa, ma
dato che stavo per compiere ventun anni e quindi sarei diventata
maggiorenne, non osavano opporsi, ma mi ripetevano di pensare bene
alla mia scelta.
Le sorelle
nel corso degli anni avevano continuato a vedersi ogni giorno e sono
sicura che mia zia aveva sempre consolato e confortato mia madre di
tutti i dispiaceri che aveva avuto, il primo di tutti la mia partenza
per l'Italia.
Il marito,
uomo colto e appassionato di scacchi, aveva una piccola azienda di
mattonelle che lo impegnava tutto il giorno, per questo mia zia
trascorreva molte ore a casa da sola. Dopo aver sbrigato le sue
faccende domestiche andava dalle figlie che nel frattempo si erano
sposate, cucinava per loro, a volte puliva una parte della loro casa
e spesso teneva i loro bambini, ma all'imbrunire andava sempre a
trovare mia madre.
Quando mio
zio morì dopo una breve malattia, zia Margarita sembrava forte e
decisa a continuare a lottare. Non sentiva troppo la solitudine anche
perché aveva imparato da tempo a stare da sola e per fortuna una
delle figlie abitava col marito nella casa di fronte alla sua.
Da quando mi
ero trasferita in Italia ci vedevamo poco, solo durante le vacanze
estive.
Una sera
d'estate andai a cena da mia cugina. Zia Margarita, che era una
grande cuoca, quella volta non aveva voluto cucinare per noi. La
trovai diversa, come se fosse smarrita.
Mia cugina
mi disse che sua madre non riusciva a uscire di casa dal giorno in
cui era caduta per la strada.
In realtà
non si era fatta niente, ma si era molto impaurita e nessuno la
poteva convincer ad uscire.
Quando
sentiva le campane che annunciavano un funerale, chiedeva a mia madre
o alle figlie di andare in chiesa e sedersi nell'ultimo banco, come
faceva lei da anni, per dare l'ultimo saluto alla persona deceduta
Da allora mi
madre per accontentare la sorella cominciò ad andare a tutti i
funerali.
Nelle
lettere, che ogni settimana mia madre mi scriveva, mi arrivavano le
notizie della nostra famiglia, delle persone del paese che erano
decedute e in fine di come zia Margarita rapidamente perdeva la
testa: dimenticava di aver mangiato, non ricordava più le persone
che aveva frequentato negli ultimi anni, ma riconosceva ancora le
figlie e mia madre, non riusciva a controllare le sue necessità
biologiche, cadeva spesso e più di una volta l'avevano trovata in
una pozza di sangue a causa delle ferite nelle vene varicose.
Parlava solo della sua infanzia e voleva fuggire dalla casa dove
viveva perché non la riconosceva come propria.
L'estate
prima della sua morte sono andata a trovarla. Le mie cugine erano
sconvolte da quel rapido declino. Ho chiesto loro di lasciarmi da
sola con lei; era allettata da diversi giorni e reagiva poco al
mondo esterno, le ho preso la mano e le ho detto dolcemente di come
ero felice quando insieme sgranavamo fagioli, ha aperto gli occhi, mi
ha guardato e mi ha detto che quel pomeriggio aveva raccolto molti
fagioli e non vedeva l'ora di sgranarli.
Dopo poche
settimane è morta e al suo funerale nell'ultimo banco delle chiesa
hanno messo un mazzo di fiori.
I giorni
passavano e gli esami di Maturità erano già finiti quando il
gran caldo stava arrivando in città.
La prima
mattina nella quale ero libera da impegni, sono tornata a scuola a
prendere alcuni libri e, davanti ai quadri dei risultati che erano
appena usciti, ho visto alcuni studenti contenti, altri si stavano
mangiando le mani perché avrebbero potuto avere dei voti migliori.
Mi ha molto colpita una ragazza che piangeva, l'ho consolata e le ho
detto che, nonostante che i suoi voti fossero più bassi delle
aspettative, io l'apprezzavo molto.
Mentre
tornavo a casa in bicicletta pensavo agli esami di Maturità che
erano appena finiti e mi sentivo soddisfatta e serena perché avevo
cercato di incoraggiare tutti i mie alunni e di valorizzare le loro
conoscenze e qualità. Tra una pedalata e l'altra ho pensato che
era stata zia Margarita colei che mi aveva insegnato ad aiutare le persone e a scoprire le loro qualità.
1 Le
levatrice
2 Zona
ricca di acqua nella regione del delta del Ebro dove vengono
coltivati molti tipi di ortaggi
3 La
vita può cambiare molto
4
Mantella di pizzo per coprire la testa
Granos de alubias
Aquel
verano bastante fresco me tocó hacer exámenes finales en la
escuela donde trabajaba desde hacía años. Por
la noche mientras leía un libro iba rindiéndome al sueño puesto que, después de
las pruebas escritas y orales, que nunca se acababan, estaba agotada.
Luego dormía de un tirón hasta que la cola de un sueño se
desvanecía y me despertaba.
Recuerdo que una de esas noches soñé con mi madre que sufría demencia senil y casi no nos reconocía. Su rostro todavía hermoso sonreía de una forma rara, como si tuviera un tic, pero en seguida se puso nerviosa diciendo que quería volver a casa. Nosotros no parábamos de decirle que estaba en la casa donde nació, de la cual jamás había salido.
Le dije a mi padre que quería ir a buscar a tía Margarita, la hermana de mi madre, a quien ella estaba muy apegada. El opinó que iba a ser muy difícil dar con ella, ya que desde hacía muchos años vivía en una tierra muy lejana.
La hallé en una ciudad extraña llena de gente que iba andando muy rápido y que no miraba a nadie. Ella, como solía siempre hacer se avino a ir a ver a mi madre.
Después de un largo viaje en tren, nos detuvimos en frente del sillón donde mi madre pasaba sus días; increíblemente la reconoció de inmediato a tía Margarita y se la comió de besos, ambas lloraban de felicidad.
Después mi madre mencionó, al principio tranquila y luego inquieta, la sillita de su hermana, quien murió de pulmonía tres años antes de su nacimiento y que se llamaba Teresa como ella.
Mi abuela adoraba aquella sillita y la guardaba como si fuera una reliquia. A sus hijas nunca les había permitido sentarse o jugar con ella.
Al final mi madre dio una bofetada a una mujer con un rostro bastante borroso que se parecía a Anita, la llevadora del pueblo. Entonces mi madre comenzó a gritar como una loca diciendo que quería sentarse en la sillita. Mi tía para tranquilizarla le dijo que iría a buscarla al desván, pero que mientras esperaba podía comenzar a quitar la vaina a los frijoles. Teresa dejó inmediatamente de gritar.
En aquel momento me desperté y durante la mayor parte del día, especialmente después de los exámenes, cuando mi cabeza estaba más despejada, pensé intensamente en aquel sueño tan raro.
Las dos hermanas nacieron en los años veinte. Su padre, mi abuelo, poseía un pedazo de tierra a pocos kilómetros de la aldea. La había heredado de sus antepasados paternos, sin embargo él los cultivaba con poca convicción. En cambio era muy bueno para los negocios: comprar y revender productos de los demás agricultores. Su esposa, mi abuela, era una mujer muy trabajadora, por la mañana iba al mercado a vender huevos y pollos, que ella misma criaba; por la tarde iba a recoger las hortalizas que su marido había sembrado.
Ella, a diferencia de mi abuelo, que habría cultivado sólo patatas, tenía una buena predisposición para introducir las novedades que muchas veces le traía su hermano, quien había emigrado a la zona de la huerta valenciana. Fue ella quien aconsejó a mi abuelo que sembrara alubias.
A mi madre, como a mi abuelo tampoco le gustaba la vida del campo, soñaba con casarse joven e ir a vivir a Barcelona. Pero como la vida da muchas vueltas enamorándose de mi padre quedó atada al campo para siempre.
Poco tiempo después de la boda Teresa tuvo una enfermedad pulmonar grave, de la que se salvó milagrosamente; después con un pulmón comprometido, siguió siempre muy enfermiza. Tal vez por esta razón, a menudo se mostraba pesimista y de mal humor, pero en los últimos años de su vida, su salud mejoró mucho a pesar de que cada vez estaba más delgada. A medida que iba perdiendo kilos su carácter se volvía más suave; recuerdo que era más cariñosa con todo el mundo y finalmente parecía querer disfrutar de las pequeñas cosas de la vida.
Margarita era dos años más joven que Teresa, pero era más alta y corpulenta. Miraba siempre las cosas con optimismo. Su cara y sobre todo los ojos dulces irradiaban salud. No recuerdo que se hubiera puesto nunca enferma. Era muy tranquila y cariñosa, pero su mayor virtud era la paciencia que tenía con todo el mundo.
Ayudaba a quien iba a pedirle un favor. Las vecinas cuando tenían muchos quehaceres llevaban a sus hijos a su casa y ella los cuidaba con mucho esmero. Recuerdo que cuando éramos pequeños, en verano por mañana nos llevaba, a mí y a mis hermanos, con sus hijas y otros niños del vecindario, a la playa.
Por la tarde no le gustaba mucho salir de casa, pero cuando había un funeral, aunque no conociera a la persona fallecida hacía lo posible para para asistir a la ceremonia fúnebre.
En la iglesia se sentaba en el último banco y se cubría con una mantilla negra para rezar por el alma de la persona desaparecida.
Recuerdo que una de esas noches soñé con mi madre que sufría demencia senil y casi no nos reconocía. Su rostro todavía hermoso sonreía de una forma rara, como si tuviera un tic, pero en seguida se puso nerviosa diciendo que quería volver a casa. Nosotros no parábamos de decirle que estaba en la casa donde nació, de la cual jamás había salido.
Le dije a mi padre que quería ir a buscar a tía Margarita, la hermana de mi madre, a quien ella estaba muy apegada. El opinó que iba a ser muy difícil dar con ella, ya que desde hacía muchos años vivía en una tierra muy lejana.
La hallé en una ciudad extraña llena de gente que iba andando muy rápido y que no miraba a nadie. Ella, como solía siempre hacer se avino a ir a ver a mi madre.
Después de un largo viaje en tren, nos detuvimos en frente del sillón donde mi madre pasaba sus días; increíblemente la reconoció de inmediato a tía Margarita y se la comió de besos, ambas lloraban de felicidad.
Después mi madre mencionó, al principio tranquila y luego inquieta, la sillita de su hermana, quien murió de pulmonía tres años antes de su nacimiento y que se llamaba Teresa como ella.
Mi abuela adoraba aquella sillita y la guardaba como si fuera una reliquia. A sus hijas nunca les había permitido sentarse o jugar con ella.
Al final mi madre dio una bofetada a una mujer con un rostro bastante borroso que se parecía a Anita, la llevadora del pueblo. Entonces mi madre comenzó a gritar como una loca diciendo que quería sentarse en la sillita. Mi tía para tranquilizarla le dijo que iría a buscarla al desván, pero que mientras esperaba podía comenzar a quitar la vaina a los frijoles. Teresa dejó inmediatamente de gritar.
En aquel momento me desperté y durante la mayor parte del día, especialmente después de los exámenes, cuando mi cabeza estaba más despejada, pensé intensamente en aquel sueño tan raro.
Las dos hermanas nacieron en los años veinte. Su padre, mi abuelo, poseía un pedazo de tierra a pocos kilómetros de la aldea. La había heredado de sus antepasados paternos, sin embargo él los cultivaba con poca convicción. En cambio era muy bueno para los negocios: comprar y revender productos de los demás agricultores. Su esposa, mi abuela, era una mujer muy trabajadora, por la mañana iba al mercado a vender huevos y pollos, que ella misma criaba; por la tarde iba a recoger las hortalizas que su marido había sembrado.
Ella, a diferencia de mi abuelo, que habría cultivado sólo patatas, tenía una buena predisposición para introducir las novedades que muchas veces le traía su hermano, quien había emigrado a la zona de la huerta valenciana. Fue ella quien aconsejó a mi abuelo que sembrara alubias.
A mi madre, como a mi abuelo tampoco le gustaba la vida del campo, soñaba con casarse joven e ir a vivir a Barcelona. Pero como la vida da muchas vueltas enamorándose de mi padre quedó atada al campo para siempre.
Poco tiempo después de la boda Teresa tuvo una enfermedad pulmonar grave, de la que se salvó milagrosamente; después con un pulmón comprometido, siguió siempre muy enfermiza. Tal vez por esta razón, a menudo se mostraba pesimista y de mal humor, pero en los últimos años de su vida, su salud mejoró mucho a pesar de que cada vez estaba más delgada. A medida que iba perdiendo kilos su carácter se volvía más suave; recuerdo que era más cariñosa con todo el mundo y finalmente parecía querer disfrutar de las pequeñas cosas de la vida.
Margarita era dos años más joven que Teresa, pero era más alta y corpulenta. Miraba siempre las cosas con optimismo. Su cara y sobre todo los ojos dulces irradiaban salud. No recuerdo que se hubiera puesto nunca enferma. Era muy tranquila y cariñosa, pero su mayor virtud era la paciencia que tenía con todo el mundo.
Ayudaba a quien iba a pedirle un favor. Las vecinas cuando tenían muchos quehaceres llevaban a sus hijos a su casa y ella los cuidaba con mucho esmero. Recuerdo que cuando éramos pequeños, en verano por mañana nos llevaba, a mí y a mis hermanos, con sus hijas y otros niños del vecindario, a la playa.
Por la tarde no le gustaba mucho salir de casa, pero cuando había un funeral, aunque no conociera a la persona fallecida hacía lo posible para para asistir a la ceremonia fúnebre.
En la iglesia se sentaba en el último banco y se cubría con una mantilla negra para rezar por el alma de la persona desaparecida.
A
veces, cuando toda la gente se había marchado, se iba al
cementerio y luego deprisa volvía a casa para guisar la cena,
casi siempre a base de judías.
Sus hijas y yo, primero niñas y luego muchachas, jugábamos muy a menudo en el zaguán de su casa o en el jardín con nuestras muñecas; cuando yo entraba veía a la tía siempre muy ocupada, limpiando y moviéndose por la cocina, sin embargo alguna vez estaba quietecita sentada, cosiendo o mondando judías, entonces me daba cuenta de que sonreía.
- ¿Tía, por qué estás tan contenta hoy ? Le preguntaba.
- Porque el funeral de esta tarde ha sido muy bonito, me contestaba.
Luego me contaba alguna anécdota de la vida de la persona que había fallecido. Me quedaba boquiabierta escuchando aquellas historias a veces tan estrafalarias y me olvidaba de mis compañeras de juego; me sentaba en la mesa y ayudaba a mi tía a mondar alubias. Ella siempre trataba de encontrar cosas buenas en las personas de quienes me hablaba. Todavía me parece estar oyendo su voz que se mezclaba con el ruido que los granos hacían rompiendo la vaina.
Los años pasaron rápidamente y los juegos infantiles en casa de mis primas o en la calle se terminaron, pero recuerdo que cuando me trasladé a Barcelona para estudiar, seguía yendo a visitar de vez en cuando a mi tía Margarita.
Mi madre y su hermana no se separaron jamás, una vez casadas, siguieron viéndose cada día, porque sus casas estaban a pocos metros de distancia. La primera boda fue la de mi madre, quien obligada por sus padres, había tenido que permanecer en el caserón familiar. Unos años más tarde Margarita se casó con un joven que vivía en la misma calle. A mi tía le gustaba mucho el campo y en verano alguna tarde iba a recolectar hortalizas. Se llevaba muy a bien con las mujeres andaluzas que trabajaban como jornaleras en los campos. Escuchaban la radio o cantaban mientras sus cestos iban llenándose de judías. Al final los vaciaban en grandes sacos verdes, desechando las vainas más secas, que mi tía agachándose recogía porque encerraban un verdadero tesoro para ella.
En invierno, cada día las dos hermanas se reunían en nuestra casa para pasar la tarde. Cuando volvía de la escuela al entrar ya desde el pasillo las veía charlando sentadas en la galería, que era la pieza más luminosa de la casa.
Mi madre siempre me decía:
- Lávate las manos y merienda.
Mientras hacía los deberes en la mesa de la cocina oía a las dos hermanas que cuchicheaban, sin embargo alguna que otra vez me llegaba la voz quejosa de mi madre y la de tía Margarita que trataba de aliviarle las penas.
A finales de los años setenta decidí que me iría a estudiar a Italia. Cuando se lo dije a mi tía se puso muy triste:
- No te vayas, no nos dejes. Con quién voy a hablar de mis muertos ? Me dijo.
Mis padres tampoco estaban contentos con la decisión que yo había tomado; quizás por el hecho de que iba a cumplir veintiún años y que por consiguiente alcanzaría la mayoría de edad, no se atrevieron a oponerse demasiado, sin embargo me repetían miles de veces que pensara bien en lo que iba a emprender.
Las hermanas, a lo largo de los años, no dejaron de verse ni un día y estoy segura de que tía Margarita siguió consolando a mi madre.
Su marido, hombre de cultura y aficionado al ajedrez, era muy trabajador y por consiguiente pasaba mucho tiempo en la pequeña empresa de azulejos que dirigía con otros socios, así que mi tía transcurría muchas horas sola en su vivienda. Después de acabar sus tareas domésticas iba a casa de las hijas quienes, una tras otra se fueron casando; cocinaba para ellas, a veces limpiando una parte de su casa y a menudo cuidaba a los nietos, pero cada atardecer solía ir a ver a ver a su hermana.
Cuando mi tío murió después de una breve enfermedad, Margarita se mostró muy fuerte y decidió seguir luchando. No sentía demasiado la soledad, porque hacía tiempo que había aprendido a estar sola y por suerte una de las hijas vivía con su esposo en frente de su casa.
Desde de que me mudé a Italia fui viendo a mi tía sólo durante las vacaciones.
Una tarde de verano mi prima me invitó a cenar a su casa. Tía Margarita, que era una gran cocinera, aquel día no quiso guisar para nosotros. Me pareció distinta, como si estuviera perdida.
Mi prima me dijo que su madre no quería salir de casa desde el día en que había caído por la calle. En efecto, ella no se había hecho nada, pero estaba muy asustada y nadie podía convencerla para que saliera.
Cuando oía las campanas anunciando un funeral, le pedía a mi madre o a las hijas que fueran a iglesia y se sentaran en el último banco, como hizo ella durante tantos años, para despedirse de los difuntos.
Desde entonces, mi madre para complacer a su hermana, empezó a ir a todos los funerales.
Con las cartas que mi madre me escribía cada semana, me llegaban noticias de nuestra familia, de la gente del pueblo que iba muriéndose y de como tía Margarita perdía rápidamente la cabeza: se olvidaba de lo que había comido, ya no recordaba a las personas que habían estado a su alrededor en los últimos años, sin embargo seguía reconociendo a sus hijas y a mi madre; no podía controlar sus necesidades biológicas; se caía cada dos por tres y más de una vez la habían encontrado en un charco de sangre por las heridas en las varices; hablaba sólo de su infancia y quería escaparse de la casa donde vivía, ya que no la reconocía como propia.
El verano antes de que se muriera fui a verla. Mis primas estaban asustadas por el rápido empeoramiento de su madre. Les pedí que me dejaran a solas con ella; hacía varios días que estaba postrada en la cama y reaccionaba poco con el mundo exterior.
Le cogí una mano y le recordé lo feliz que era cuando juntas sacábamos las vainas de las alubias; abrió los ojos, me miró y me dijo que aquella tarde había recogido una una gran cantidad vainas y que tenía muchas ganas de mondarlas.
Al cabo de unas semanas murió y en su funeral sobre el último banco de la iglesia alguien puso un ramo de flores.
Los días pasaban y los exámenes finales terminaron cuando una ola de calor llegó a la ciudad.
La primera mañana en la que estuve libre de compromisos, regresé a la escuela para recoger unos libros; delante del tablero donde habían expuesto la lista de las notas de los exámenes, vi a algunos estudiantes contentos, otros estaban enojados ya que hubieran querido obtener mejores calificaciones. Me quedé muy impresionado mirando a una alumna que lloraba sin parar. La consolé y le dije que, a pesar de que sus notas fueran más bajas de lo esperado, yo estaba orgullosa de ella.
Mientras volvía a casa en bicicleta pensaba en aquellos exámenes finales y me sentía bien y apaciguada conmigo misma porque había tratado de animar a todos mis alumnos y al mismo tiempo reconocerles sus méritos. Mientras pedaleaba, pensé que había sido tía Margarita quien me había enseñado a ayudar a las personas y a reconocer sus cualidades.
Sus hijas y yo, primero niñas y luego muchachas, jugábamos muy a menudo en el zaguán de su casa o en el jardín con nuestras muñecas; cuando yo entraba veía a la tía siempre muy ocupada, limpiando y moviéndose por la cocina, sin embargo alguna vez estaba quietecita sentada, cosiendo o mondando judías, entonces me daba cuenta de que sonreía.
- ¿Tía, por qué estás tan contenta hoy ? Le preguntaba.
- Porque el funeral de esta tarde ha sido muy bonito, me contestaba.
Luego me contaba alguna anécdota de la vida de la persona que había fallecido. Me quedaba boquiabierta escuchando aquellas historias a veces tan estrafalarias y me olvidaba de mis compañeras de juego; me sentaba en la mesa y ayudaba a mi tía a mondar alubias. Ella siempre trataba de encontrar cosas buenas en las personas de quienes me hablaba. Todavía me parece estar oyendo su voz que se mezclaba con el ruido que los granos hacían rompiendo la vaina.
Los años pasaron rápidamente y los juegos infantiles en casa de mis primas o en la calle se terminaron, pero recuerdo que cuando me trasladé a Barcelona para estudiar, seguía yendo a visitar de vez en cuando a mi tía Margarita.
Mi madre y su hermana no se separaron jamás, una vez casadas, siguieron viéndose cada día, porque sus casas estaban a pocos metros de distancia. La primera boda fue la de mi madre, quien obligada por sus padres, había tenido que permanecer en el caserón familiar. Unos años más tarde Margarita se casó con un joven que vivía en la misma calle. A mi tía le gustaba mucho el campo y en verano alguna tarde iba a recolectar hortalizas. Se llevaba muy a bien con las mujeres andaluzas que trabajaban como jornaleras en los campos. Escuchaban la radio o cantaban mientras sus cestos iban llenándose de judías. Al final los vaciaban en grandes sacos verdes, desechando las vainas más secas, que mi tía agachándose recogía porque encerraban un verdadero tesoro para ella.
En invierno, cada día las dos hermanas se reunían en nuestra casa para pasar la tarde. Cuando volvía de la escuela al entrar ya desde el pasillo las veía charlando sentadas en la galería, que era la pieza más luminosa de la casa.
Mi madre siempre me decía:
- Lávate las manos y merienda.
Mientras hacía los deberes en la mesa de la cocina oía a las dos hermanas que cuchicheaban, sin embargo alguna que otra vez me llegaba la voz quejosa de mi madre y la de tía Margarita que trataba de aliviarle las penas.
A finales de los años setenta decidí que me iría a estudiar a Italia. Cuando se lo dije a mi tía se puso muy triste:
- No te vayas, no nos dejes. Con quién voy a hablar de mis muertos ? Me dijo.
Mis padres tampoco estaban contentos con la decisión que yo había tomado; quizás por el hecho de que iba a cumplir veintiún años y que por consiguiente alcanzaría la mayoría de edad, no se atrevieron a oponerse demasiado, sin embargo me repetían miles de veces que pensara bien en lo que iba a emprender.
Las hermanas, a lo largo de los años, no dejaron de verse ni un día y estoy segura de que tía Margarita siguió consolando a mi madre.
Su marido, hombre de cultura y aficionado al ajedrez, era muy trabajador y por consiguiente pasaba mucho tiempo en la pequeña empresa de azulejos que dirigía con otros socios, así que mi tía transcurría muchas horas sola en su vivienda. Después de acabar sus tareas domésticas iba a casa de las hijas quienes, una tras otra se fueron casando; cocinaba para ellas, a veces limpiando una parte de su casa y a menudo cuidaba a los nietos, pero cada atardecer solía ir a ver a ver a su hermana.
Cuando mi tío murió después de una breve enfermedad, Margarita se mostró muy fuerte y decidió seguir luchando. No sentía demasiado la soledad, porque hacía tiempo que había aprendido a estar sola y por suerte una de las hijas vivía con su esposo en frente de su casa.
Desde de que me mudé a Italia fui viendo a mi tía sólo durante las vacaciones.
Una tarde de verano mi prima me invitó a cenar a su casa. Tía Margarita, que era una gran cocinera, aquel día no quiso guisar para nosotros. Me pareció distinta, como si estuviera perdida.
Mi prima me dijo que su madre no quería salir de casa desde el día en que había caído por la calle. En efecto, ella no se había hecho nada, pero estaba muy asustada y nadie podía convencerla para que saliera.
Cuando oía las campanas anunciando un funeral, le pedía a mi madre o a las hijas que fueran a iglesia y se sentaran en el último banco, como hizo ella durante tantos años, para despedirse de los difuntos.
Desde entonces, mi madre para complacer a su hermana, empezó a ir a todos los funerales.
Con las cartas que mi madre me escribía cada semana, me llegaban noticias de nuestra familia, de la gente del pueblo que iba muriéndose y de como tía Margarita perdía rápidamente la cabeza: se olvidaba de lo que había comido, ya no recordaba a las personas que habían estado a su alrededor en los últimos años, sin embargo seguía reconociendo a sus hijas y a mi madre; no podía controlar sus necesidades biológicas; se caía cada dos por tres y más de una vez la habían encontrado en un charco de sangre por las heridas en las varices; hablaba sólo de su infancia y quería escaparse de la casa donde vivía, ya que no la reconocía como propia.
El verano antes de que se muriera fui a verla. Mis primas estaban asustadas por el rápido empeoramiento de su madre. Les pedí que me dejaran a solas con ella; hacía varios días que estaba postrada en la cama y reaccionaba poco con el mundo exterior.
Le cogí una mano y le recordé lo feliz que era cuando juntas sacábamos las vainas de las alubias; abrió los ojos, me miró y me dijo que aquella tarde había recogido una una gran cantidad vainas y que tenía muchas ganas de mondarlas.
Al cabo de unas semanas murió y en su funeral sobre el último banco de la iglesia alguien puso un ramo de flores.
Los días pasaban y los exámenes finales terminaron cuando una ola de calor llegó a la ciudad.
La primera mañana en la que estuve libre de compromisos, regresé a la escuela para recoger unos libros; delante del tablero donde habían expuesto la lista de las notas de los exámenes, vi a algunos estudiantes contentos, otros estaban enojados ya que hubieran querido obtener mejores calificaciones. Me quedé muy impresionado mirando a una alumna que lloraba sin parar. La consolé y le dije que, a pesar de que sus notas fueran más bajas de lo esperado, yo estaba orgullosa de ella.
Mientras volvía a casa en bicicleta pensaba en aquellos exámenes finales y me sentía bien y apaciguada conmigo misma porque había tratado de animar a todos mis alumnos y al mismo tiempo reconocerles sus méritos. Mientras pedaleaba, pensé que había sido tía Margarita quien me había enseñado a ayudar a las personas y a reconocer sus cualidades.