sabato 4 ottobre 2025

Patate


                              

                                                                 

Sono le sette di sera e sono seduta al tavolo della cucina. Ho appena sbucciato delle patate per fare una frittata; poi le ho tagliate sottili, le ho messe in una padella con dell’olio abbondante, coprendole. Devo aspettare un po' perché siano pronte e ogni tanto devo girarle per evitare che si attacchino; nel frattempo, leggo un libro.
Abito in un appartamento in città e non ho molte occasioni per sentire i profumi delle piante dell'orto. Per questo, quando cucino, avvicino al naso pomodori, fagioli, lattuga e patate, che erano gli ortaggi più coltivati dai miei genitori negli anni Sessanta. Adesso annusando le mie dita che odorano di patate mi tornano in mente, come lampi, i ricordi della mia infanzia.


La mia era una famiglia contadina da molte generazioni. Abitavamo a Malgrat, un paese del Maresme, sulla costa nord-orientale della Catalogna. I miei bisnonni possedevano terreni lungo il fiume Tordera, a pochi passi dalla spiaggia. La zona, chiamata Pla de Grau, era una pianura fertile; ma ora l'agricoltura sta morendo a causa dell’espansione degli impianti turistici e industriali. Attualmente nel paese sopravvivono solo una decina di agricoltori, mentre negli anni Sessanta e Settanta erano centinaia le famiglie che vivevano dei prodotti della terra.

Da piccola sentivo gli adulti lamentarsi dei pericoli che mettevano a repentaglio i raccolti. Ogni volta che cadeva un forte acquazzone, mio nonno ci ripeteva che quando era giovane le piogge torrenziali, e con esse lo straripamento del fiume, avevano fatto marcire le radici delle patate. Mio padre, invece, quando percorrevamo la strada lungo la spiaggia, ci raccontava che, a causa delle grandi quantità di sabbia prelevata dal letto del fiume per costruire nuove case, il mare aveva avanzato erodendo quasi tutta la spiaggia e che una notte di tempesta l'acqua salata aveva raggiunto i campi, danneggiando le coltivazioni. Poi sorrideva soddisfatto e ci diceva:
«Ho lottato e sono riuscito a impedire che il mare arrivasse alle terre coltivate. La vita è una lotta, non dimenticatelo mai».
Si vedeva che era orgoglioso di aver fondato un comitato con altri contadini e albergatori della zona e di essere riuscito a farsi ascoltare dal sindaco convincendolo, a far mettere delle rocce sulla spiaggia per difendere la costa dalle tempeste.
Entrambe le minacce erano devastanti, ma, per fortuna, poco frequenti. Comunque, ogni anno in primavera, i miei genitori temevano le gelate tardive che avrebbero potuto danneggiare le piante. Inoltre, alla fine dell'estate e all'inizio dell'autunno, incombeva un'altra minaccia: le intense grandinate che distruggevano le foglie e rovinavano il raccolto. Insomma, il mondo era pieno di pericoli, pensavo da bambina.
La semina delle patate seguiva un rituale che si ripeteva ogni anno. In autunno si raccoglievano patate di una varietà adatta alla semina, che venivano depositate in cassette basse e larghe e coperte con dei teli affinché germogliassero al buio. Da ogni gemma spuntava un germoglio che avrebbe dato vita a una nuova pianta: un vero miracolo! Era importante che i tuberi non fossero esposti alla luce durante tutto l'inverno, perché se diventavano verdi producevano solanina, una tossina pericolosa.
Per la loro semina bisognava aspettare che fosse passato il rischio di gelate. Tra la fine di febbraio e i primi di marzo iniziava un altro rituale: mio padre, con l'aiuto di mia madre e di altri lavoratori, tirava fuori i tuberi dal loro letargo e li tagliava. Era importante usare un coltello affilato, ma non troppo per evitare di ferirsi. Lo facevano seduti in cerchio e, mentre li dividevano in due o quattro pezzi, ciascuno con un germoglio, chiacchieravano e ridevano, sempre con la radio sempre accesa. Noi bambini correvamo intorno a loro. La campagna di semina delle patate era molto importante per i guadagni delle famiglie contadine. I miei genitori speravano che il raccolto fosse buono, come negli anni precedenti. Ma c'era sempre qualche contrattempo che provocava un calo del prezzo e tutti si lamentavano di nuovo. Comunque ogni anno tornavano a seminare patate.
Quando io e mio marito andavamo a trovare i miei genitori in macchina, ci regalavano sempre un sacco di patate. Non riuscivano a immaginare la loro figlia in un paese lontano, senza le patate del Maresme. Mio padre smise di coltivarle quando si ammalò a novant'anni.


Mi alzo per controllare se le patate sono pronte per essere tolte dalla padella, mescolate alle uova sbattute e rimesse in padella con poco olio. La tortilla mi piace ben cotta e di solito la giro più volte affinché diventi dorata su entrambi i lati.
Mentre aspetto, guardo il vassoio che abbiamo sopra il frigorifero. e mi rendo conto che è sempre pieno di patate.

Quando sono arrivata a Firenze, ho avuto modo di assaggiare le delizie della cucina italiana; ma nella casa in cui vivevo con altri studenti, finivamo per mangiare sempre pasta al pomodoro. Ogni tanto, però, cucinavo patate per sentire il sapore di casa. All’epoca sapevo poco di cucina e le preparavo bollite con le verdure, ma pian piano ho imparato a cucinarle in tanti altri modi: stufate, fritte, in purea, nelle frittate o al forno.
Sono passati molti anni da allora, ma continuo a sentire la mancanza delle patate del Pla de Grau e, quando ho mal di pancia, sento il bisogno di mangiare patate lesse con un po' d’olio d'oliva. Sarà un istinto ancestrale? Non lo so, ma mi fanno bene.









giovedì 2 ottobre 2025

Patatas

 



Son las siete de la tarde y estoy sentada en la mesa de la cocina. Acabo de pelar patatas para hacer una tortilla, las he cortado en láminas finas, las he puesto en una sartén con bastante aceite y las he cubierto con una tapadera. Tengo que esperar una media hora para que estén en su punto, dándoles la vuelta de vez en cuando para que no se peguen. Mientras tanto, leo un libro.

Vivo en un apartamento de una ciudad italiana y no tengo muchas oportunidades de oler los aromas de las plantas del huerto. Por eso, cuando cocino, acerco a mi nariz tomates, judías, lechugas y patatas, que eran la mayor parte de las hortalizas que cultivaban mis padres en los años sesenta. Ahora, al percibir el olor de las patatas en mis dedos, me vienen destellos de recuerdos de mi infancia.


Mi familia era campesina desde hacía muchas generaciones. Vivíamos en Malgrat, un pueblo de El Maresme, en la costa noreste catalana. Mis tatarabuelos poseían un un terreno junto al río Tordera, a pocos pasos de la playa. La zona, llamada Pla de Grau, era una llanura fértil; pero hoy en día la agricultura ha dejado de florecer en ella, y se ha transformado en un área turística e industrial. Actualmente, en el pueblo solo sobreviven una decena de agricultores, es difícil de creer que, a caballo entre los años sesenta y setenta, fueran centenares las familias que vivían de los productos de la tierra.

De niña escuchaba a los mayores lamentarse de los peligros que acechaban a las cosechas. Mi abuelo, cada vez que caía un fuerte aguacero, nos repetía que cuando él era joven las lluvias torrenciales, y el consiguiente desbordamiento del río, habían podrido las raíces de las patateras. En cambio, mi padre, cuando pasábamos por la carretera de la playa, nos contaba que,debido a la grande cantidad de arena que los constructores habían extraído del lecho del río para edificar nuevas viviendas, el mar había avanzado y se había tragado casi toda la playa y que una noche de borrasca el agua salada había llegado a los campos y secado las matas sembradas; luego sonreía de satisfacción y nos decía:

Yo luché para que el mar no llegara a nuestras tierras. La vida es una lucha, no lo olvidéis nunca.

Se le notaba que estaba orgulloso de haber fundado un comité con otros campesinos y hoteleros de la zona, y de haber logrado que el alcalde los escuchara y colocaran rocas en la playa para defender el litoral de las tempestades.

Ambas amenazas eran devastadoras, pero, por suerte, poco frecuentes. Sin embargo, cada año en primavera, mis padres temían las heladas tardías que dañaban a las plantas. Además, a finales de verano y principios de otoño, se cernía otra amenaza: las intensas granizadas que a su paso trituraban las hojas y estropeaan la cosecha; en fin, el mundo estaba lleno de peligros, pensaba yo de pequeña.

La siembra de las patatas era un rito que se repetía cada año. En otoño se recolectaban las patatas que en febrero servirían para la siembra. Se depositaban en cajas bajas y anchas y se cubrían con unos sacos para que en la oscuridad sacaran brotes. De cada ojo salía un brote del que nacía una planta nueva, ¡un milagro! Era importante que los tubérculos no se expusieran a la luzdurante todo el invierno, pues si enverdecían producían solanina, que es una toxina peligrosa.

Para sembrarlas había que esperar que pasara el riesgo de heladas y entonces comenzaba otro ritual: mi padre sacaba los tubérculos de su letargo y, con la ayuda de mi madre y otros trabajadores, los cortaba. Era importante usar cuchillos afilados, pero no demasiado para no herirse. Lo hacían sentados en corro y, mientras los dividían en dos o cuatro pedazos, cada uno con un brote, charlaban y reían, siempre con la radio encendida de fondo. Los niños correteábamos a su alrededor. La campaña de la siembra de patatas era muy importante para los ingresos de las familias campesinas. Mis padres esperaban que la cosecha fuera buena, como la de los años anteriores. Pero siempre ocurría algo que provocaba una caída en el precio y todos se quejaban de nuevo. Sin embargo, cada año mi familia volvía a sembrar patatas.

Cuando mi esposo y yo íbamos a ver a mis padres en coche, nos regalaban un saco de patatas. No se imaginaban a su hija en un país lejano, sin las patatas de El Maresme. Mi padre dejó de cultivarlas cuando enfermó, a los noventa años.


Me levanto para ver si las patatas están hechas y poder sacarlas, después las mezclo en un bol con los huevos batidos y las pongo de nuevo a fuego bajo en la sartén con poco aceite. Me gusta la tortilla cuajada y suelo darle varias vueltas para que quede dorada por ambos lados.

Mientras espero, me fijo en la bandeja repleta de patatas que tenemos encima de la nevera y me doy cuenta de que nunca la dejo vacía.

Cuando llegué a Firenze, probé las delicias de la cocina italiana; pero en la casa que compartía con otros estudiantes, acabábamos siempre comiendo pasta al pomodoro; sin embargo, de vez en cuando, cocinaba patatas para sentir el viento de casa. Tenía pocas nociones de cocina y las hacía hervidas con verdura, pero poco a poco fui aprendiendo nuevas recetas: guisadas, fritas, en puré, en tortilla y asadas al horno.

Han pasado muchos años de ello, pero sigo echando de menos las patatas del Pla de Grau y, cuando me duele la barriga, siento el impulso de comer patatas hervidas con un poco de aceite de oliva. ¿Será un instinto ancestral? No lo sé, pero me curan.






sabato 27 settembre 2025

Volver


Eran los últimos días de verano de 1975 cuando Antonio sacó dos pasajes para Buenos Aires. Era un hombre decidido y ambicioso. Marina era muy joven y le costó poco dejarse convencer. Su padre se enfureció y le gritó que no quería verla nunca más si se fugaba con aquel cantamañanas. El veintinueve de septiembre, fue a la estación y cogió el tren con Antonio para ir a Barcelona. En el puerto se paró a mitad de la escalera del buque y dudó; sin embargo, respiró hondo y se embarcó.

Los años pasaron rápidamente y Marina se ocupó con ahínco de todas las cosas buenas y malas que se le iban presentando: la carrera universitaria, la búsqueda de un trabajo y de vivienda, el nacimiento y la crianza de los hijos, la prosperidad de la empresa y su quiebra, las dificultades económicas, las desavenencias conyugales, y por último, la enfermedad y la muerte de Antonio.

Cuando cumplió sesenta y cinco años, decidió volver. Esperó unos meses a que terminara el confinamiento y sacaran las medidas de seguridad contra la epidemia de coronavirus. A mitades de abril de 2021 salió de Buenos Aires. El vuelo no se le hizo pesado, pues tuvo la suerte de que a su lado no se sentara nadie. Ella ocupó el asiento del pasillo, aunque le gustara más el de la ventanilla, lo escogió para sentirse más libre de moverse. Tomó una de las pastillas que había comprado en la herboristería y pudo dormir casi siete horas a sus anchas. Luego se levantó para estirar las piernas y fue al baño y, entre la comida que la azafata le trajo en una bandeja y la lectura de un libro, se entretuvo bastante. Habló bien poco con los viajeros de su alrededor. Solo con una señora anciana que le contó que iba a visitar a su hijo que vivía en Barcelona.

¡Cuánto le hubiera gustado que su madre hubiera ido a verla a Buenos Aires! Pensó.

En el aeropuerto de Barcelona, cogió un taxi hasta la estación de Sants y allí tomó el primer tren de cercanías para la costa de El Maresme. Siempre se sentaba, a ser posible, en un asiento de ventanilla y de dirección a la máquina. Mirando el mar, meditó sobre lo que, hacía tantos años, había dejado atrás: sus padres, que ya habían fallecido, su hermana y la mansión.

A medida que el tren iba acercándose al pueblo, empezó a sentir un ligero malestar que se transformó en un fuerte dolor en el pecho. Para relajarse se imaginó entrando en la mansión: puso una llave en la cerradura del portalón de madera maciza y con otra abrió la puerta blanca con bajo relieves floreados y contempló el dintel de cristales de colores y las jambas de azulejos geométricos; recorrió el pasillo de la planta baja con las artísticas decoraciones de cerámica, y miró hacia el hueco de la escalera monumental para admirar la franja de imágenes de cenefa romana de las paredes y la luz que penetraba por la magnífica claraboya modernista de vidrios de colores. Entró en el despacho, en el comedor, en el inmenso salón, en la salita y en la cocina. En la galería, entreabrió la puerta acristalada que daba al jardín y le llegó el olor de los rosales y de las hortensias floridas.

El tren arrancó y un nuevo pasajero entró en el compartimento. Un muchacho rubio, de unos cuarenta años, con a cuestas una voluminosa mochila, se sentó a su lado y cerró los ojos.

El alemán huele a sudor y su cara está enrojecida. ¿Quién sabe cuántas horas ha caminado bajo el sol? Pensó.

Marina recordaba que se les llamaba alemanes a todos los extranjeros rubios, al ser los primeros veraneantes que llegaron a los pueblos de la costa.

El tren iba parándose en las innumerables estaciones, donde bajaba más gente de la que subía. Los pueblos pasaban rápidamente al otro lado de la ventanilla, el alemán seguía durmiendo y Marina respiró hondo; le faltaba un apeadero para bajar y no quería perderse la emoción de la llegada. Siguió unos minutos sin dejar de observar al muchacho y se dio cuenta de que hacía siglos que no miraba a un hombre de aquella manera. Le pareció atractivo, y sin darse cuenta, se recompuso el peinado con las manos, de forma coqueta. Luego se fijó en las dos mujeres que acababan de subir y que se sentaron en su compartimento. Parecían hermanas.

Per sort hem recuperat la nostra casa. Espero que no hagi perdut la seva essència, dijo la flaca.

Aquella conversación sacudió a Marina y se alegró por las dos muchachas hubieran recuperado su vivienda.

La más joven y rechoncha, tardó en hablar y, haciendo una mueca y ladeando la cabeza, le contestó a la flaca:

No, les cases on hem viscut, per molt que les hagin canviat, conserven el nostre passat.

Marina estaba de acuerdo en que las casas, a pesar de los cambios, todavía conservan el pasado de quien ha vivido en ellas. Y le hubiera gustado exclamar:

Yo he perdido mi hogar y mi pasado.

No se atrevió a decir nada, pero antes de bajar del tren, ya había elaborado un plan minucioso para apoderarse de la mansión.

En el trascurso de cuarenta y cinco años, Marina no había visto crecer los pueblos al otro lado de la ventanilla, ni cómo se construían los grandes hoteles, piscinas, campings, centros acuáticos, urbanizaciones y apeaderos nuevos. Cuando la locomotora empezó a ralentizar para entrar en la estación de Malgrat, miró por última vez al alemán y se dispuso a bajar su maleta del portaequipajes.

Marina se asombró al descubrir la gran expansión hotelera y le dijo a una señora gorda que estaba en la plataforma e iba a bajar con ella:

Hace muchos años en esta llanura se cultivaban hortalizas; la tierra era fértil. ¡Qué pena que haya desaparecido la agricultura!

Sí, ya quedan pocos payeses. Aquí vivimos del turismo.

Iba ligera de equipaje y no le costó llegar al hotel que reservó desde Buenos Aires. La parte suroeste del municipio estaba llena de establecimientos hoteleros modernos, pero ella quiso alojarse en uno de la parte antigua, con vistas al mar.

Durante muchos años mantuvo correspondencia con su amiga Alicia y por ella se enteró de la boda de Mercedes, su hermana, con Luís y, más tarde, de la muerte de sus padres.

Alicia era el único enlace que tenía con el pueblo. Desde que se marchó se escribían largas cartas. Lo hacían en castellano, ya que ambas crecieron en la época franquista, en cuyas escuelas sólo se enseñaba la lengua oficial. Con el pasar de los años empezaron a usar correo electrónico. Lograron reencontrarse en Buenos Aires, en octubre de 2018, gracias a un intercambio de alumnos de bachillerato de los dos países. Fue Alicia quien tuvo la idea y quien se ocupó de todo. Ella presentó un proyecto al Instituto Cervantes que se ocupa de promover el idioma español y la cultura hispana a nivel internacional, y esto incluye también el fomento de la movilidad de estudiantes y profesores entre España e Iberoamérica. Alicia consiguió un vuelo para Buenos Aires a un precio accesible y participar a las clases y actividades didácticas del colegio argentino; en cambio, Marina fue postergando el viaje a España con sus estudiantes y tras una serie de complicaciones, entre las cuales la pandemia, fue anulado.

Los alumnos de Alicia se hospedaron en los hogares de los estudiantes argentinos y los padres se ocuparon de ellos. Alicia estuvo completamente libre de responsabilidades durante todo un fin de semana y Marina también, pues Antonio había ido a Río de la Plata para zanjar un asunto de trabajo. Marina fue a recoger a Marina al hotel donde se alojaba con Alicia con otros profesores. Las dos amigas se abrazaron y lloraron emocionadas varios minutos. Alicia se sonó la nariz para preguntarle:

¿Por qué no vuelves, Marina?

Me gustaría hacerlo. Llevo años pensándolo, pero desde que los médicos descubrieron la enfermedad incurable de Antonio, no me atrevo a dejarlo solo. Ni siquiera sé si podré participar al intercambio.

Primero, tendrías que volver tú sola.

Quizás el año que viene.

¿Y con Mercedes, qué?

He intentado varias veces ponerme en contacto con ella, pero nunca me ha contestado. Cuando oye mi voz, cuelga.

Marina seguía sufriendo por haber sido excluida, no sólo de los bienes materiales, sino también del derecho de ser hija y hermana. Con su padre nunca se llevó bien, al ser muy autoritario, pero a su madre no acababa de entenderla. ¿Por qué no la había apoyado cuando le dijo que se marchaba? ¿Por qué no quiso hablarle el día antes de su viaje? Ella desde siempre había sido una mujer frágil y remisa, pero en los últimos años en que Marina vivió en la mansión, algo le debió pasar y empezó a exagerar con calmantes y somníferos. Se encerró más en sí misma y se dejó dominar completamente por su esposo.

¡Pobre mamá! ¡Qué calvario fue su vida! Le comentó a Alicia, después de oír las funestas noticias de su familia.

A parte de Mercedes, ya no quedaba nadie en el pueblo de la famila Pons; tíos y primos, poco a poco fueron desapareciendo; algunos fallecieron, otros se mudaron a otra ciudad.

Mercedes tenía dos años menos que Marina y siempre fue muy celosa de ella. Cuando Marina, una noche de finales de verano, mientras estaban cenando, dio la noticia de que se iba a Argentina con Antonio, el señor Pons empezó a chillar:

Vete y no vuelvas. Nos deshonras. La gente del pueblo nos señalará por la calle y se burlará de nosotros; lo está deseando. Los mismos que hasta ayer te trataban de usted, hoy te llamarán puta, que es lo que eres.

No me ofendas papá; Antonio es mi novio y en Argentina nos casaremos.

Eres la deshonra de nuestra familia.

La hermana y la madre se quedaron calladas.

Mercedes, di algo. —Diles que me apoyas. —le chilló Marina —I tu, mare, no m’abandonis! —terminó la frase llorando.

La señora Pons se retiró a su habitación y Mercedes se escabulló con una excusa tonta. Dejaron a Marina sola con el cabeza de familia enfurecido. Sin embargo, ella supo defenderse, replicando que era mayor de edad y que podía actuar por su cuenta, sin pedirle permiso.

Te vas a arrepentir. —De mí no vas a sacar ni un duro más y te voy a desheredar —le dijo gritando y dando un portazo.

Ambas mujeres ya sabían lo del viaje a Argentina y le habían prometido a Marina que la iban a apoyar; sin embargo, a la hora de la verdad no tuvieron agallas para contradecir al tirano. Joaquina López Turró, a quien todos llamaban señora Pons, quería a su hija y, aunque lamentara que se fuera tan lejos, no vio nada de malo en ello. Pero no tuvo el valor para enfrentarse a su esposo, a quien temía, desde el día en que se casó con él. Mercedes, en cambio, se llevaba bien con su padre, pero se calló porque no quería complicaciones e implicarse en aquel asunto. La única cosa que en aquel momento le pasó por la cabeza fue la certeza de que, en cuanto su hermana se marchara, Luís, el hijo del farmacéutico, iba a ser suyo.

Dos días después, cuando Marina fue repudiada y desheredada por su padre, Joaquina y Mercedes tampoco hicieron nada para impedirlo.

El señor Emilio Pons no podía ver a Antonio, porque según él era demasiado cuentista, pero en realidad lo aborrecía porque no era catalán. Los abuelos de Antonio eran emigrantes murcianos que llegaron a Malgrat en 1911 para trabajar en las minas de hierro. Antonio nació en Calella, donde su padre consiguió emplearse en una fábrica textil. Sin embargo, durante la infancia y adolescencia, iba a menudo a casa de sus abuelos y fue jugador de fútbol del equipo municipal. Antonio era moreno, con ojos vivarachos que emanaban simpatía. Le gustaba ir arreglado, pero a Marina le parecía más atractivo cuando iba sin traje y corbata. Cuando empezó a trabajar, la astucia y la ambición le permitieron llegar lejos.









 

mercoledì 27 agosto 2025

Pasta all'aglione

 




  • Ingredienti per 5-6 persone


- 500g. di pasta fresca (spaghetti alla chitarra o pisci)

- 5 spicchi d’aglione (circa 100-120 g.)

- 500 g. di pomodori (250g. pelati e 250g.  di polpa di pomodoro fresco)

- olio extra vergine di oliva

- sale

- prezzemolo e pepe (facoltativo)

- parmigiano (facoltativo)

- basilico ( facoltativo)



            Preparazione


- Sbuccia gli spicchi d’aglione e mettili uno o due minuti al microonde per farli ammorbidire.


- In una padella, versa l’olio extravergine d’oliva, aggiungi l’aglione grattugiato e sfuma con un po’ di acqua.


- Copri la padella con un coperchio e fai cuocere a fuoco medio per circa 20-25 minuti. Una volta che l’aglione sarà ammorbidito, con una forchetta schiaccia bene i pezzi, finché non risulterà finemente sminuzzato. Importante: non far soffriggere l’aglione, deve essere cotto in maniera dolce e lenta.


- Aggiungi la polpa di pomodoro, il prezzemolo, le spezie a piacere e il sale. Copri nuovamente la padella e fai cuocere il sugo a fuoco lento, per circa 45 minuti, finché non avrà raggiunto la consistenza desiderata.


- Cuoci gli spaghetti in abbondante acqua salata. Scolali al dente e fai saltare in padella a fiamma vivace per qualche minuto, prima di servire.


- Grattugia parmigiano a piacere su ogni piatto e aggiungi una foglia di basilico














domenica 6 luglio 2025

La desheredada - Prólogo

 



Empezaba a amanecer, el mar estaba en calma y soplaba una ligera brisa de tierra. En el embarcadero de la playa, los pescadores tiraban las cuerdas, empujando las barcas mar adentro. Manuela Llopis Hernández oyó a lo lejos los gritos de los hombres que se hacían a la mar. Se paró delante de la ventana, miró el mar y esperó a que la playa estuviera desierta del todo para cruzar la puerta. Antes de hacerlo, tuvo un momento de lucidez y cogió del armario la caja de latón donde guardaba las fotografías. Se sentó en una silla cerca de la ventana y las fue mirando una por una. Separó dos: un retrato suyo en sepia de cuando llegó a España y otro donde posaba orgullosa con sus dos hijas pequeñas, una a cada lado. Dejó su retrato en el cajón del escritorio que había sido de Narciso, su esposo. Luego besó la otra fotografía y la guardó de nuevo en la caja. Con aquel gesto se estaba desprendiendo de la mujer que había sido durante los últimos años. Sin embargo, la culpable de la fuga no era ella, sino la muchacha cubana que todavía albergaba en su corazón.

Al levantarse de la cama, se puso un mantón de lana gris sobre los hombros y se calzó con unas zapatillas de esparto. Llevaba un largo camisón blanco de media manga, bordado a mano. En una cama al lado de la suya, Caridad, su criada cubana, dormía profundamente y, para que no se despertara, Manuela se movió sigilosamente por el cuarto. Luego entró en el dormitorio de su hija Amelia y observó detenidamente la cabeza que sobresalía de la colcha: los párpados cerrados, la nariz chata, las arrugas del rostro, los labios un poco abiertos y el pelo grisáceo. Al notar que respiraba plácidamente, se tranquilizó. Dejó sobre la mesita de noche el retrato que había escogido para ella. En una alcoba que comunicaba con la de Amelia descansaban sus dos bisnietas, a quienes les acarició delicadamente los cabellos. La mayor era morena, tenía tres años y la pequeña, que había recién cumplido uno, era rubia. Luego se dirigió al dormitorio del fondo, donde vio a una mujer acurrucada en un rincón de una cama grande. No se acordaba de quién era. Se quedó mucho rato mirándola, hasta que oyó las campanas que anunciaban la primera misa, cogió su sombrero y salió de casa.

Con la caja de fotografías agarrada en el pecho, se acercó a la playa y se sentó en la arena. Sacó de nuevo los retratos, que en su mayor parte eran de la época cubana. Acarició la imagen de sus padres y la besó varias veces. El sol iba levantándose poco a poco y la brisa cesó. Miró de nuevo el mar y recordó el largo viaje de La Habana a Barcelona que hizo con Narciso, Caridad y las niñas.

Ahora lo único que tenía que hacer era meterse en el agua y dejar que las corrientes marinas la llevaran a su tierra. Volteó la cabeza hacia atrás y divisó por última vez la magnífica casa de estilo colonial, rodeada por un frondoso jardín. Sin embargo, no se acordaba de que era ella la dueña y de que allí había vivido cincuenta años. En su cabeza existía sólo la casa de la finca de Entre Ríos en Consolación del Sur, donde anhelaba volver.

Se levantó y se encaminó hacia la orilla y poco a poco entró en el mar. Sus pies iban andando sobre el fondo arenoso y sus piernas sumergiéndose cada vez más bajo el mar; cuando el agua le llegó a la cintura, el camisón se quedó empapado y se hinchó como una vela de un barco.

Las campanas despertaron a Caridad y, al ver la cama vacía, corrió hacia la ventana. Vio que el cuerpo de su ama iba sumergiéndose y gritó:

¡Señora Manuela, recule! ¡Señora!

La mujer que había perdido la cabeza se iba hundiendo hacia los abismos y la caja de latón con ella.









domenica 29 giugno 2025

Zenobia

 

Cuando se despertó, le dolía un poco la cabeza. Durante la cena, además de varias copas de cava, Marina tomó un poco de vino tinto de una de las botellas que le habían traído sus amigas. Ella tenía cuidado en no mezclar bebidas alcohólicas, pero, aquella noche especial, no lo tuvo. Se tomó una aspirina y se quedó un rato más en la cama. Era una mañana suave de mayo y, mientras se desperezaba, estuvo pensando en los muchachos de El Maresme, los que a mediados del siglo XIX se fueron a Cuba; no todos tuvieron suerte; sin embargo, algunos afortunados, quizás los más listos y ambiciosos o los que tenían menos escrúpulos, regresaron cargados de riqueza y construyeron casas lujosas, como la de su bisabuelo. Abrió el portátil y buscó noticias de las mansiones de los indianos, pero no se quedó satisfecha y se fue a la biblioteca. Dobló la esquina y cogió la calle principal donde había la casa más hermosa del pueblo; se quedó pasmada al ver que ya no quedaba casi nada del palacete de antaño. Recordó que cuando vivía en el pueblo, a menudo se paraba a contemplar, desde la verja del jardín frondoso, la espléndida mansión de estilo colonial rodeada por una escalinata de mármol y una galería con arcos, de donde destacaba una torre central.

El vigilante le contó que en 1979 los dueños la vendieron a una promotora y cuando las excavadoras estaban derrumbando la casa, los habitantes del pueblo protestaron e hicieron cesar las obras. Salvaron poca cosa: algunos árboles, el molino que servía para suministrar agua y los dos pequeños estanques, pero consiguieron que dos años más tarde el ayuntamiento comprara la finca, edificara un centro social para jubilados y convirtiera el jardín en un lugar público.

Marina entró en el parque cabizbaja y se sentó en un banco. Al cabo de unos minutos se puso a su lado una mujer con un sombrero de ala corta. De su rostro destacaban unos ojos verdes intensos. Llevaba un collar de perlas, una blusa blanca y un traje de chaqueta gris, sencillo, pero elegante; aparentaba unos sesenta años.

¿Sabía usted que fue construida en 1873 por el indiano Mariano Alsina Robert? El jardín era fabuloso, con palmeras, pinos, moreras, sauces llorones, cedros, magnolios y muchas variedades de rosales. Pero quizás usted no sepa que desde el año 1884 hasta 1891 la familia Camprobí alquiló la quinta para pasar allí los veranos. Y que en 1887, en el dormitorio más lindo, desde donde se veía el mar, nació Zenobia.

Marina se animó y le contestó:

Ah, sí, Zenobia Camprobí, la que se casó con Juan Ramón Jiménez.

Vaya, todo el mundo la conoce por su esposo. Ella también era escritora, periodista y traductora.

Sí, tiene razón. Vivió en una época en que las mujeres contaban bien poco, pero he leído que fue una mujer valiente, capaz y talentosa.

Isabel Aymar, su madre la llamaba caballota, que reúne los tres adjetivos que usted acaba de mencionar.

Tiene usted acento caribeño.

Viví muchos años en Puerto Rico; mi abuela era de allá; bueno, era criolla, medio catalana y medio corsa. —Bajó un poco la cabeza, se tocó el collar de perlas y dejó de hablar unos segundos. —Zenobia transcurrió los veranos más felices de su infancia en este pueblo y siempre siguió añorándolo. En 1905 se fue a vivir a Nueva York con su madre y allí empezó los estudios universitarios. Cuando, al cabo de cinco años, volvió a España, todos la llamaban la americanita. Antes de regresar a Nueva York, quiso ir a visitar su casa natal en busca de su niñez… pero le pareció triste y oscura; en cambio, el jardín seguía siendo un esplendor. ¡Qué bonitas eran las rosas!

La mujer se levantó y desapareció en el parque, antes de que Marina tuviera tiempo de preguntarle más cosas.

¿Quién era aquella mujer misteriosa?

En la biblioteca buscó noticias de Zenobia. Dio con una biografía y se retiró a la sala de lectura para darle una ojeada. Descubrió que su vida fue singular: fue hija de dos continentes, una mujer moderna, brillante, inquieta y luchadora, escritora y traductora, empresaria visionaria y activista feminista, profesora universitaria y pedagoga entregada a la infancia. Marina pensó que era una pena que una mujer con tanto talento hubiera sido la sombra de su esposo. Antes de salir, le preguntó a la bibliotecaria si tenían más libros de Zenobia.

Tenemos el diario de juventud.

Marina se llevó a casa el dietario y se pasó toda la noche leyéndolo.

De madrugada, durmió algunas horas y se levantó más tarde que de costumbre. Mientras desayunaba, se propuso dejar de pensar en la mansión y concentrarse en otras cosas, pero no lo consiguió. Aquella mujer misteriosa le estimuló la curiosidad y se fue de nuevo a la biblioteca para investigar sobre los indianos, los catalanes de El Maresme que regresaron de Cuba con una gran fortuna. En un libro encontró varias cosas que desconocía y las apuntó en su libreta:

Los indianos generalmente ordenaban construir la casa antes de volver a Cataluña. Lo primero que hacían era ponerse en contacto con algún familiar o amigo de confianza para que contratara los servicios de un arquitecto o de un maestro de obras, que dirigía la construcción de una mansión. Desde América enviaban las instrucciones y el dinero necesario para iniciar las obras y, una vez en casa, solo tenían que ocuparse de los últimos detalles.

Se imaginó a su bisabuelo Narciso escribiendo a uno de sus primos, para que se encargara de las obras de la mansión que quería construir.

Por las mañanas estaba muy concurrida la biblioteca y Marina tuvo que sentarse en una butaca de la sala de lectura de la prensa y esperar a que quedara libre una mesa. Al cabo de poco tiempo se trasladó a una mesa de la sala general de lectura, donde había varios muchachos que estudiaban delante de la pantalla de un portátil. Era época de exámenes y recordó que jamás había disfrutado los meses de mayo y de junio, primero como alumna y después como profesora. ¡Qué pena, son los meses más lindos del año! Suspiró y siguió escribiendo en su libreta.

Las casas indianas solían estar formadas por un sótano, una planta baja, uno o dos pisos y un desván. La fachada a menudo estaba decorada y destacaba por su simetría. Todas las ventanas eran regulares y de dimensiones similares. La parte posterior de la casa daba al patio y estaba formada por galerías con pilares y arcos; en su interior se podían ver pinturas murales de jardines y plantas exóticas. Las casas solían tener también una torre, cuadrada o circular, desde donde se podía ver el mar. En la planta baja de la casa estaban el vestíbulo, los inmensos y altos salones y la cocina. A través de unas escaleras anchas, hechas con los materiales de mejor calidad, se accedía a los pisos superiores y a los dormitorios. Las habitaciones más lujosas solían estar decoradas con pinturas murales y disponían, como los salones de la primera planta, de una gran chimenea. Los muebles de las casas destacaban por su gran calidad. Para fabricarlos, los indianos llevaron de América la madera de la jacaranda y de la caoba. La mayor parte de los muebles era de caoba, pero también utilizaron la caña de bambú para hacer mesas y sillas.

Mientras tomaba apuntes, pensó que Narciso Pons Garriga, su bisabuelo, era un indiano austero, pues la fachada de la mansión estaba decorada con sencillez y ni en el interior de la galería ni en los dormitorios había pinturas murales. Él también quería ver el mar y construyó una torre. De los muebles antiguos ya quedaba poca cosa; muchos estaban arrinconados en el desván. Marina se quedó quieta, recordando con añoranza los muebles de caoba que su abuela y Caridad frotaban cada día para que brillaran.

Dejó el libro y el cuaderno en la mesa, la chaqueta colgada detrás de la silla y puso su portátil dentro de la mochila. Salió de la biblioteca y fue a sentarse en la terraza del bar de la plaza de al lado. Se puso las gafas de sol, pues todavía no quería ser reconocida. No había casi nadie; el camarero le contó que muchos establecimientos comerciales del centro iban cerrando. En aquella plaza antiguamente hacían mercado y Marina se imaginó a las criadas mulatas de los indianos, que iban a comprar plátanos, arroz, frijoles negros y carne picada para preparar un manjar llamado moros y cristianos, típico del Caribe. Recordó a su abuela Amelia, que le encantaba cocinar el arroz con salsa de tomate y huevo frito, plato que más tarde fue llamado arroz a la cubana. Con aquel recuerdo sintió hambre y miró el reloj. Era casi la una. Llamó al camarero y pidió un bocadillo de queso. Mientras tomaba el sol, se quedó un rato ensimismada mirando a las personas que entraban y salían del establecimiento para tomar un café o comer algo. Se imaginó que las mujeres que llevaban una bolsa de deporte salían del gimnasio que estaba a dos pasos, que las que llevaban un carrito eran amas de casa que volvían de la compra, y que los que no tenían prisa eran jubilados. Después de comer se puso a leer. La plaza empezó a despoblarse y hacia las dos empezaron a llegar los empleados que iban a almorzar.

Volvió a la biblioteca y se puso a leer los periódicos del día. Las salas de lectura estaban bastante vacías. Marina se sentó en la mesa donde había dejado sus cosas y siguió tomando apuntes:

Los patios de las casas se cerraban con rejas de hierro y se accedía por un portal bastante alto que estaba decorado con motivos coloniales. A través de sus jardines, los indianos querían volver a contemplar el paisaje tropical de Cuba y por eso no faltaba el agua ni la vegetación, que era muy abundante. Había fuentes, estanques, caminos y todo tipo de plantas exóticas, las mismas que se cultivaban en los patios cubanos. Los indianos más adinerados encargaban el diseño de sus terrenos con plantas ornamentales a arquitectos renombrados, como Eusebi Güell, que encomendó al arquitecto Antoni Gaudí el proyecto del Parque Güell de Barcelona.

Lo que más le gustaba a Marina de la mansión de su bisabuelo era el jardín. Pero quedaba bien poco del que fue antaño, pues su padre, en los años ochenta, vendió una parte de la finca y en ella se edificaron viviendas. Solo había sobrevivido una palmera real, originaria de Cuba. Sin darse cuenta, se le pasó el tiempo volando. Buscó y rebuscó más noticias sobre los indianos de El Maresme, pero no encontró nada más. Al salir, se lo comentó a la bibliotecaria, quien le aconsejó que buscara noticias de la familia Cardona, pues había un tal Félix Cardona Puig, hijo de un indiano de Malgrat, que fue famoso por sus descubrimientos geográficos en Venezuela.

En la biblioteca tenemos algunos libros, pero en Internet también va a encontrar su biografía.

¡Quién iba a decirme que este pueblo era cuna de viajeros y aventureros!

Cogió prestado el libro La conquista del Orinoco, del periodista catalán Eugeni Casanovas, con las hazañas de Félix Cardona, para leerlo en casa con tranquilidad.

Volvió a la terraza del mismo bar, se sentó en la única mesa libre y pidió al camarero una cerveza sin alcohol y unas aceitunas rellenas. Las calles empezaban a animarse; al atardecer los niños salían de las actividades extraescolares, las parejas iban a pasear y los rezagados compraban las últimas cosas para la cena. Abrió el portátil y se puso a buscar noticias de Félix Cardona Puig. Encontró que fue un explorador de la Guayana, donde realizó varias expediciones y vivió mucho tiempo con los indígenas. Se volvió famoso tras descubrir la cascada más alta del mundo en Venezuela, El Salto Ángel. Félix Cardona estudió en un internado y en la Escuela Náutica de Barcelona y viajó a lo largo y ancho de América Central gracias a la riqueza de su padre. A finales del siglo XIX, el padre de Félix se fue a Cuba con su hermano, donde hicieron fortuna. Los hermanos Cardona a principios del siglo XX volvieron ricos a su tierra natal y cada uno se hizo construir una casa en la calle que de la plaza de la iglesia llegaba al mar. No eran mansiones espléndidas como la de los indianos del siglo anterior, pero eran palacios hermosos, comparados con las humildes casas donde vivía la mayor parte de la gente. Marina recordaba vagamente aquellas dos casas señoriales, una en frente de otra. Cerró el portátil y se fue andando despacio por la calle del Mar hacia su nueva morada.

Se paró delante de las casas de los hermanos Cardona. Primero miró la de la izquierda. Un señor con un bastón, al verla tan concentrada, mirando las decoraciones modernistas de la fachada, le dijo:

Esta casa todavía es de la familia Cardona, pero hace años que no vive nadie. La alquilan en verano. Todavía luce, a pesar de que, en los años sesenta, con la fiebre del turismo, abrieron una tienda y destruyeron un poco la fachada. Por suerte, en la entrada está la verja original de hierro forjado y el mirador de arriba se conserva bien, con los vidrios amarillos y verdes.

Sí, es preciosa. Las tres ventanas rectangulares sobre el mirador son muy originales. También la casa del frente es de estilo modernista, pero es más sencilla.

Esa ya no pertenece a la familia Cardona. La compró una modista y la reformó, convirtiéndola en una tienda de ropa, la mejor del pueblo. Sin embargo, hace cinco años que se trasladaron a Blanes. ¡Qué desastre que hayan cerrado todos los comercios del barrio antiguo!

Cuando Marina llegó a casa cogió el libro de la biblioteca para leerlo; sin embargo antes de abrirlo sonó el móvil. Era una videollamada de sus hijos. Marina estuvo contenta de escuchar su voz melosa. Maribel y Roberto no le paraban de contar noticias de Buenos Aires. Cuando colgó, dejó el libro que tenía en las manos sobre la mesa y fue a buscar una novela del escritor argentino Manuel Puig, necesitaba volver a la tierra donde había vivido tantos años.