Eravamo contenti di viaggiare verso un arcipelago, finalmente noi due da soli. Lasciavamo indietro stanchezza e tensioni. Non vedevamo l'ora di imbarcarci. Siamo partiti verso mezzogiorno, la giornata era tersa. Mentre attraversavamo l'Appennino campano sentivo, seduta leggendo un libro, un vento caldo quasi soprannaturale, che entrava dalle finestre del nostro veicolo e ci avvolgeva come una grande sciarpa. La sonnolenza mi rapiva e le parole che leggevo si perdevano lentamente in mezzo a quel ciclone caldo. Il furgone era piuttosto confortevole anche se non aveva l'aria condizionata. Non era molto grande ma ci bastava per i nostri bagagli, quelli che servivano per una quindicina di giorni. Siamo arrivati a Bari in anticipo e subito, con nostra sorpresa, siamo venuti a sapere che la nave aveva più di tre ore di ritardo.
Ci siamo seduti sulla
terrazza di un piccolo bar e abbiamo preso delle bevande fredde. Il
proprietario del locale, un giovane barese simpatico e chiacchierone
di nome Rocco, si è offerto di vigilare la nostra macchina e nel
frattempo di prepararci una cena a base di pasta, quindi noi siamo
andati tranquillamente a visitare la città. Mentre camminavo
accaldata per le viuzze del centro, tante donne e alcuni uomini
erano seduti sulle sedie fuori dall'uscio delle loro case.
Tutte quelle persone su
quelle sedie mi ricordavano la strada del paese della costa catalana
dove avevo trascorso la mia infanzia. Ogni sera all'imbrunire le
donne portavano fuori le sedie impagliate della cucina, per poter
prendere il fresco e parlare con le vicine. Gli uomini dopo cena
andavano al caffè a giocare a carte o a domino e quando rincasavano
si sedevano con in bocca il sigaro, ormai spento, a chiacchiere
con le donne del vicinato. Noi bambini correvamo e giocavamo per la
strada o sulla piazza vicina. Nessuno ci
controllava, era bello sentirsi liberi in quelle notti d'estate degli
anni sessanta.
Abbiamo mangiato gli
spaghetti al pomodoro e basilico che Rocco ci aveva preparato con
cura, accarezzati da un vento di ponente, forse un po' insistente ma
benefico, dopo la gran calura sofferta. Poi per ammazzare il tempo ci
siamo sistemati con i nostri libri sulla
terrazza dello stabilimento di Rocco, che lentamente è diventa la
nostra nicchia, fatta da tavoli e sedie di plastica rossa. Abbiamo aspettato il
traghetto, prima con piacere poi con stanchezza e noia, parlando e
guardando il movimento del porto. Verso l'una di notte la nave non
era ancora arrivata. Durante l'interminabile attesa abbiamo
conosciuto una famiglia molisana, che viaggiava come noi in un
camper. Esmeralda, la figlia adottiva, era una bambina di sei anni
molto aperta e comunicativa. Subito abbiamo fatto amicizia. Al nostro
gruppo si è unito Dario, un bambino milanese di dieci anni,
che era un po' assonnato, perché si era alzato alle cinque del
mattino; viaggiava insieme ai suoi genitori per andare a trovare i
nonni materni in Albania. A un certo punto qualcuno, seduto su una
sedia rossa accanto a noi, ci ha detto che il traghetto aveva
accumulato molto ritardo, perché aveva dovuto aspettare i passeggeri
di una nave che doveva partire da Brindisi, ma che era stata posta
sotto sequestro perché avevano trovato nella stiva dei grandi
quantitativi di droga.
C'era da disperarsi,
avevamo sonno e guardando verso il buio orizzonte la nave non si
vedeva. Verso le tre come per magia, la gente intorno a noi si è
alzata e subito dopo abbiamo visto che le loro macchine si
disponevano in fila sul molo, quindi anche noi ci siamo incamminati
verso i lunghi serpenti di autovetture. Dopo un'ora è arrivato il
bastimento e noi esausti e senza più forze abbiamo osservato e
seguito incantati, come dei sonnambuli, tutti i movimenti del
personale di porto nel far scendere le macchine e i numerosi camion
da bordo. Quando stavamo per salire, abbiamo visto chiudersi di
fronte a noi un grosso cancello di ferro. Il motivo l'abbiamo saputo
dopo: in un camion, appena sbarcato, avevano trovato venti
clandestini.
- Povera gente, non hanno
potuto toccare la loro terra promessa, pensai.
I profughi appena sbarcati
sono stati immediatamente rispediti nel paese da dove erano venuti.
Hanno viaggiato chiusi in una stiva della nave, ci ha detto dopo un
vecchio ufficiale di marina in pensione che abbiamo conosciuto
durante la traversata. Eravamo tutti impazienti di
salpare, nessuno pensava più ai clandestini. Noi volevamo
solo cominciare le nostre vacanze e non ci rendevamo conto di quanto
eravamo fortunati a differenza di quei poveracci. Le operazioni di
sbarco e imbarco sono diventate infinite e la nave è partita quando
cominciava ad albeggiare.
Avevamo un biglietto che
ci permetteva di dormire dentro il furgone
sul ponte della nave. Appena sdraiati, dalla stanchezza, ci siamo
addormentati profondamente, ma ricordo una vaga sensazione di
sentirmi cullata dalle onde. Il sole delle dieci ci ha svegliati e
tutta la giornata l'abbiamo passata leggendo, parlando, mangiando e
giocando a carte con Esmeralda e Dario.
Ogni tanto guadavo il
mare, seduta in coperta. Esmeralda veniva in collo a me e mi chiedeva
di raccontarle la storia del libro che stavo leggendo. Seduta sulle
mie ginocchia, mentre ascoltava, cercava le mie braccia e le
sistemava così bene che nasceva un tenero abbraccio. Stavo bene in
mezzo a tutta quell'acqua e a quei bambini conosciuti da poco. Presto
sarebbe finita quella lunga traversata, i clandestini sarebbero
tornati in Afganistan, Esmeralda sarebbe andata in Turchia, Dario in
Albania con i loro genitori e noi avremo cominciato il nostro viaggio
verso il Peloponneso, pensai quasi nostalgica. Non potevo sapere che
avremo avuto degli altri inconvenienti che avrebbero fatto diventare
il nostro viaggio interminabile. Verso l'imbrunire il mare si è
fatto grosso e di fronte a l'isola di Corfù, dove la nostra nave
doveva fare una sosta, i mozzi non riuscivano a lanciare le corde per
l'attracco. Con molta fatica, una fune e poi l'altra sono arrivate a
destinazione, ma dopo poco la prima si è rotta.
La nave è tornata
indietro e noi eravamo ancora più scoraggiati anche perché vedevamo
i marinai nervosi e sfiniti. Dopo due tentativi il traghetto è
riuscito ad attraccare. Non era ancora finita, dopo le operazioni di
sbarco, mentre stavamo cominciando a lasciare il porto di Corfù, ci
siamo fermati di nuovo. Qualcuno ci ha detto che l'ancora si era
incagliata. Non potevamo crederci, era come se una calamita non ci
lasciasse andare via. Dopo un tempo che ci è sembrato infinito la
nave è ripartita; da quel momento in poi, come per miracolo, abbiamo
ripreso le nostre forze e dimenticato tutte le nostre disavventure.
Alle dieci di sera, quando
ormai era buio siamo arrivati a destinazione. Eravamo entrambi di
buon umore mentre piantavamo la tenda in un campeggio non lontano
dal porto. Ci siamo seduti a mangiare un boccone tra il mare e il
cielo stellato e poi ci siamo abbracciati.
Il caldo notturno ci ha
fatto dormire con la tenda aperta e la testa fuori. La mattina
presto, il frinire delle cicale ci ha
svegliati. La sorpresa più bella è venuta dopo scoprendo che quel
piccolo e semplice campeggio era un paradiso. Le bianche piazzole
terrazzate arrivavano fino a una baia, dove il mare era calmo come
una grande piscina. Ci siamo tuffati nell'acqua cristallina e poi sdraiati sulla sabbia
bianca.
Appena il sole ha cominciato a riscaldare un po' lui si è messo a leggere, all' ombra, seduto su un piccolo scoglio piatto. Io sono rimasta a contemplare il mare, ma un certo punto ho avuto
un gran desiderio di abbracciare mio padre novantenne, che non vedevo
da qualche mese e che non stava troppo bene di salute; ho preso un quaderno e una penna dello zaino e ho
cominciato a scrivere una lettera, in cui gli raccontavo la storia del traghetto.