domenica 23 novembre 2025

La permanente



Ieri sera mio marito ha invitato degli amici a cena. Non ci vedevamo da qualche anno. Dopo avermi salutata, il nostro amico, guardandomi, mi hanno detto:

Sei molto carina. Hai fatto qualcosa ai capelli?

Beh, proprio in questi giorni, non mi ci vedo con questo taglio. Non so se lasciarmi crescere i capelli o tagliarmeli gli ho risposto.

Se questo è il tuo unico problema, significa che stai bene.

Era vero, stavo trascorrendo un buon periodo in armonia con mio marito e al lavoro. Ero soddisfatta anche dei nostri figli che erano già indipendenti e vivevano per conto proprio.

Tuttavia sentivo una strana inquietudine, che avevo già percepito in passato. In quelle occasioni vedevo i miei capelli sempre più sottili e mi sentivo particolarmente insicura. Da diversi giorni mi guardavo allo specchio da vicino e mi ripetevo:

Prima di Natale andrò dal parrucchiere, ma non voglio accorciare troppo i capelli.

Fin da bambina amavo le trecce, le crocchie o i capelli raccolti. Ancora mi piacciono i capelli lunghi, ma in poche occasioni ho lasciato che i miei capelli crescessero.

Vado dal parrucchiere ogni due mesi circa per farmi tingere i capelli di biondo e sistemare il taglio. Ogni volta mi dice:

I tuoi capelli sono forti e sani, ma sono così fini che non puoi permetterti di portarli lunghi, perché non hanno volume e ti rimarrebbero schiacciati sulla testa.

In mezzo a tutti quei pensieri, mentre i due ospiti e mio marito guardavano al computer delle fotografie e delle mappe topografiche di una zona del Chianti, mi sono venuti in mente dei ricordi che avevo quasi dimenticato:

Ogni mattina mia madre mi faceva due trecce e mi diceva:

Nemmeno mettendole insieme, le tue due trecce raggiungerebbero lo spessore di una delle trecce di tua cugina.

Il giorno prima di Natale dei primi anni Sessanta, mia madre cercò di risolvere il problema dei miei capelli fini a modo suo, trascinandomi da Ramona, la sua parrucchiera, per farmi fare una permanente. Poi se ne andò subito a casa, lasciandomi circondata da donne curiose, che mi guardavano senza ritegno. Erano sedute con la schiena diritta, sotto i caschi degli asciugacapelli che coprivano parte delle loro teste, ma i loro occhi erano sempre puntati su di me. All’epoca avevo circa sei anni.

Ricordo che mi hanno fatto aspettare a lungo, seduta su una poltrona. La ragazza che si occupava del lavaggio dei capelli mi guardava e mi sorrideva, come per dire: poverina. Ramona, invece, non mi ha quasi considerata durante l’attesa. Quel giorno ho scoperto che era una donna molto loquace e anche piuttosto pettegola. Suo marito, che è venuto al salone a portare dei pacchi, era piuttosto mingherlino, al contrario di lei, che era un donnone.

Quando è arrivato il mio turno, la ragazza che si occupava dei lavaggi ha messo dei cuscini su una sedia per rialzarmi e mi ha legato un telo bianco al collo; poi, per proteggere il vestito, ne ha messo un altro più grosso sopra. Ramona, invece, è stata molto meno premurosa nell'operazione di prendere piccoli ciuffi di capelli e arrotolarli intorno ai bigodini di legno e fissarli poi con dei nastrini elastici. Mentre Ramona, svogliata, mi metteva gli ultimi bigodini, mi ha detto che avrei dovuto fare la permanente per tutta la vita. Quando ha finito, ho notato che la testa mi faceva male, e sentivo come se qualcuno mi tirasse il cuoio capelluto. Poi, con una sorta di pennello, mi hanno messo un intruglio appiccicoso dall’odore sgradevole. Alla fine di quell’operazione, mi hanno detto che quel liquido agiva lentamente, e che avrei dovuto aspettare un'ora. Poiché il salone si trovava abbastanza vicino a casa nostra, mi hanno avvolto la testa con un asciugamano e mi hanno mandata a casa.

Ricordo la rabbia e la vergogna che provai nell'attraversare la piazza principale del paese con quel pastrocchio in testa. Appena arrivata a casa, sono scoppiata a piangere e non volevo più tornare nel salone di Ramona. Mia madre, però mi convinse a tornarci, spiegandomi che se non mi avessero sciacquato la testa dopo un’ora, i miei capelli si sarebbero bruciati a causa del liquido della permanente. Entrai nel salone sconvolta. Ramona, vedendo la mia faccia tolse i bigodini con più delicatezza e quando mi guardai allo specchio con i capelli ricci, non vidi una bambina, ma una donna in miniatura. Ho detto ad alta voce, in modo che Ramona e tutte le pettegole che mi spiavano sotto i caschi sentissero, che non sarei più tornata e ho mantenuto la mia promessa.

Per fortuna il giorno dopo era festa, e mi sono dimenticata dei miei capelli ondulati. Alle due gli adulti si sono seduti a tavola per il pranzo di Natale e noi bambini eravamo liberi di giocare liberamente per tutta la casa.

Da adulta, ho capito che mia madre, facendomi fare la permanente, aveva agito nel miglior modo possibile, voleva che fossi bella durante le feste natalizie, perché lei aveva i capelli sottili come i miei e ne aveva sofferto molto da giovane. La ricordo, però felice quando andava da Ramona a farsi fare la permanente.

Ho smesso di pensare a mia madre e alla permanente e mi sono dedicata agli ospiti.
La cena è stata molto piacevole, ci siamo divertiti, soprattutto quando abbiamo parlato dei vecchi tempi, quando da studenti abitavamo insieme nella stessa casa colonica.

Ricordate la parrucchiera di S. Polo? Quella che una volta ci ha tagliato i capelli in modo così strano e anche un po’ maldestro? domandò la nostra amica sorridendo.

Siamo scoppiati tutti e quatto a ridere e il mio malessere è scomparso.





lunedì 17 novembre 2025

Il sangue Rh negativo di mia madre

 



L'altra sera mentre sfogliavo rapidamente un libro di biologia, per caso, i miei occhi si sono soffermati sul paragrafo “Rh e incompatibilità” e ho letto:


Può verificarsi una malattia emolitica nel feto o nel neonato se il sangue di una donna è Rh negativo, se porta in grembo un bambino Rh positivo e se, in precedenza, ha avuto un figlio con sangue Rh positivo.


Per il lavoro che facevo, sapevo già queste cose e le avevo ripetute per anni ai miei studenti, ma fino a quel momento non avevo mai fatto il collegamento con la mia nascita. 

Chiamai immediatamente mio padre, che mi confermò che il sangue di mia madre apparteneva al gruppo Rh negativo, poi chiamai mia sorella, la prima di tre figli, la quale mi disse che il suo sangue era Rh positivo.

Non ci potevo credere. Dato che anche il mio è Rh positivo, durante la seconda gravidanza di mia madre, nel suo sangue si erano sicuramente formati degli anticorpi in grado di distruggere i mie globuli rossi, attraverso la placenta. Avrei dovuto nascere con gravi patologie o addirittura morire. Invece sono nata sana, ma prematura.

Dovevo venire al mondo alla fine di agosto, ma una sera di metà luglio, mentre era seduta davanti a casa, a chiacchierare allegramente con le vicine, mia madre ha avuto delle coliche molto dolorose. Chiamato d'urgenza, il vecchio dottor Rossinyol escludeva che si trattasse di doglie, pensava piuttosto a un problema intestinale e, per questo, le fece somministrare dei clisteri. Ma i dolori di mia madre aumentavano sempre di più.

Allora mia nonna, saggiamente, chiamò Anita, la levatrice del paese. Anita era una donna bassina, non molto bella e molto seria e riservata, ma non smetteva di ridere quando nasceva un bambino. Un giorno, era arrivata in paese con suo marito, che era un barbiere, da non si sa dove.

Sono nata all'alba di una giornata torrida. Ero minuta, pesavo solo due chili. Dormivo sempre. Il dottore e la levatrice compresi temevano che sarei morta. Negli anni Cinquanta, nel mio paese, non c'erano incubatrici, quindi per tenermi al caldo mi hanno coperto con vari strati di vestitini di lana. 

Poi, mio padre mi metteva delle goccioline di collirio per svegliarmi all'ora giusta: dovevo mangiare e crescere. Sembra che mi sia attaccata facilmente al seno di mia madre e che abbia cominciato subito ad aumentare di peso.

Ogni volta che tornavo in Catalogna a trovare la mia famiglia mio padre mi ricordava sempre il giorno della mia nascita, dicendomi:


Eras molt maca,

la pell clara i els cavells negres,

el cap rodonet i el cos petitet.

Dormias sempre,

pero quan jo et posava les gotetes

els teus ulls eran com dues estrelletes 


Con il libro di biologia in mano ho capito il perché della mia nascita prematura: stavo male nel grembo di mia madre, ero debole ma sentivo un impulso che mi spingeva fuori, dovevo uscire prima che gli anticorpi di mia madre distruggessero i miei giovani globuli rossi. Ho riconosciuto in quell'impulso la forza che ancora oggi mi spinge ad andare avanti. Ho ripreso il libro e, accarezzandolo ho capito di essere una donna fortunata che aveva lottato per nascere e ce la aveva fatta.





Eri molto carina, la pelle chiara e i capelli neri, la testina rotonda e il corpo piccolino. Dormivi sempre, però quando ti mettevo le goccioline i tuoi occhi erano come due stelline.



venerdì 7 novembre 2025

Los indianos

 



A media mañana Marina, después de un largo paseo, volvió a casa y se puso a ordenar los apuntes de la biblioteca y a ojear el libro que había tomado prestado. Hacia las dos, mientras terminaba de comer, sonó el móvil. Era una videollamada de sus hijos. Marina se alegró al oír su voz melosa. Maribel y Roberto no pararon de contarle cosas de Buenos Aires y la animaron a que dejara de lado el testamento y se reconciliara con su hermana.

Cuando colgó, dejó olvidado sobre la mesa el libro de la biblioteca y tomó de la caja la novela Las viudas de los jueves, de la escritora argentina Claudia Piñeiro. Le gustaba leer dos libros a la vez y cogerlos y dejarlos según cómo se sentía. En aquel momento necesitaba volver con la imaginación a Buenos Aires, donde había vivido tantos años. Pasó largo rato leyendo, tumbada en el sofá.

A las cinco de la tarde, volvió a la biblioteca para ver si encontraba más noticias de los indianos. Se sentó en la sala de lectura. Consultó varios libros, pero encontró bien poco. Cuando empezaba a desanimarse, una anciana que había estado leyendo la prensa cerca de su mesa se le acercó.

Perdone que me entrometa, pero he oído en el mostrador del vestíbulo que usted está buscando noticias sobre los indianos del pueblo.

Sí, pero hay poca cosa.

Si le apetece, puedo contarle la historia de mi familia, en la que también hubo un indiano.

Las dos mujeres salieron de la biblioteca y se dirigieron a la terraza del bar donde solía ir Marina. La mujer, que se llamaba Montserrat Cuní, tenía casi noventa años y vivía sola en el casco antiguo del pueblo. Sus hijos la ayudaban con las compras y la llevaban en coche al centro de salud cuando se ponía enferma, pero salía de casa todas las tardes a la misma hora para ir a la biblioteca. Sus gafas de concha redondas y su pelo blanco corto le daban un aire intelectual. Había sido maestra de primaria durante más de cuatro décadas. Se casó a los cuarenta años con Pere Torrent, un sastre viudo. Al cabo de pocos meses se quedó embarazada y dio a luz a dos mellizos. Su esposo también fue longevo; falleció a los noventa y dos años, mientras dormía. Montserrat habló con cariño de su marido y le dijo que lo añoraba durante cada hora del día.

Nos conocimos tarde, pero Pere fue un magnífico esposo y padre y, para sus clientes un buen sastre. —le dijo emocionada.

Los vecinos del pueblo la habían tildado de mujer rara. Primero la habían tachado de solterona, luego, casándose de mayor, de estéril, pero les sorprendió dando a luz a los dos mellizos.

Tras una breve pausa, Montserrat siguió contando.

Mi abuelo Esteban Cuní se fue muy joven a Cuba para hacer fortuna, en el año 1870. Dejó en casa de sus suegros a Ángela Catalá, su esposa veinteañera, a un hijo de dos años y a un bebé de pocos meses. Al principio le enviaba dinero y le escribía cartas, prometiéndole que regresaría rico, dejó de hacerlo al cabo de unos años. Ángela, gracias a sus padres, que eran panaderos, crió a sus hijos sanos y fuertes. En 1868, un grupo de cubanos liderados por Carlos Manuel de Céspedes empezó a luchar por la independencia de España y la abolición de la esclavitud. Estalló una guerra feroz que duró diez años, llamada Guerra Grande. Los esclavos se alistaron voluntaria o forzadamente en el bando de los rebeldes y fueron carne de cañón. Céspedes cayó en 1874, pero la lucha siguió otros cuatro años y hubo más de cien mil muertos. Pocos meses después del frágil acuerdo entre las dos partes, estalló la Guerra Chiquita, que duró pocos meses, pero las guerrillas no cesaron nunca. Esteban Cuní, cansado de tantas matanzas y penurias, decidió regresar a su patria.

¿Volvió rico?

¡Qué va! Llegó a Cataluña sin un duro con Cándida, una muchacha mulata, que presentó a todo el mundo como su criada. Ángela, al verlos comparecer en su casa, tragó su indignación y aceptó a Sebastián para que sus hijos tuvieran un padre, pero relegó a Cándida a las labores de sirvienta y le puso un catre en el establo. Ángela era la dueña y mandaba, pero Cándida no consentía que le faltara al respeto, ya que aún recordaba la esclavitud a la que su madre estuvo sometida. Ella había nacido libre y quería serlo de verdad. La muchacha tenía buen carácter, pero cuando Ángela se enfadaba y la reñía por cualquier cosa, ella no se callaba, sacaba las garras y le decía: —Yo no soy tu esclava —exclamó Montserrat, levantando la voz.

¿Y qué pasó luego? — le preguntó Marina.

Vivieron los tres juntos bastantes años. Hasta que Ángela se quedó embarazada de nuevo. Mi abuela no se esperaba a otro hijo, pues tenía cuarenta y ocho años. Aprovechó aquel acontecimiento para echar a la mulata de casa definitivamente. Esteban no se atrevió a oponerse, ya que la dueña de todo era su esposa y no tuvo el valor de fugarse con ella. Le encontró un cobijo y la metió de sirvienta en una masía cerca de Tordera.

Pobre Cándida —suspiró Marina.

Después de un largo silencio, en que la anciana aprovechó para sonarse la nariz y beber un poco de agua, continuo hablando.

Los chismosos del pueblo rumoreaban que Esteban visitaba a menudo a Cándida y que tuvo una hija con ella.

¿Cuál era el apellido de Cándida?

Rubio. Me lo reveló mi padre antes de morir, pero él nunca se atrevió a ir a preguntar por ella.

¿Y tú no fuiste a buscarla?

Yo nunca supe nada. Pero hace un par de años, cuando murió mi esposo, le pedí a uno de mis hijos que me acompañara a Tordera. Pregunté allí y fui al archivo municipal, pero no logré averiguar nada.

¡Qué lástima!

Si existió la hermanastra de mi padre, ahora ya estará muerta.

Calló unos segundos, respiró hondo y siguió con brío su relato.

La mayor parte de los indianos se estableció en la calle del Mar, en el tramo final, donde solo había huertos. Antes de volver definitivamente a España, desde Cuba, compraban una finca y allí hacían construir la casa. Los más ricos construían mansiones lujosas; los demás, la mayoría, se hacía casas más pequeñas, pero de estilo refinado y de dos plantas. En aquel entonces, las casas de la aldea eran de una sola planta, y albergaban tanto la vivienda como las cuadras para los animales. Entre finales del siglo XIX y principios del XX, la calle del Mar se fue poblando de indianos con su servidumbre mulata.

Vaya, se convirtió en un pueblo multiétnico.

¿Quiere oír otra historia de indianos?

Y sin dejarle responder, Montserrat empezó un nuevo relato.

Mi madre me contó que al lado de su casa vivía Jacinto Tarrés, con su esposa, Carmen Subirá, y sus tres hijos. Era una familia trabajadora y honrada. Carmen tenía parientes en Cuba. Cuando Segismundo Subirá, el padre de Carmen, se quedó viudo, emigró a la isla y se estableció en Matanzas, donde abrió una tienda de comestibles gracias a un primo. Muchos catalanes en Cuba eran tenderos o comerciantes. En la parte oeste de la isla había varias comunidades de catalanes. Al tendero le iba bien y le enviaba dinero a su hija; por lo que los Tarrés pudieron comprar telares y montar una pequeña fábrica de hilados. Hasta que un día llegó a Malgrat Cubita, como la llamaron desde el principio. Se presentó a los Tarrés como la sobrina de Segismundo, pero todos sospechaban que era su hija. Jacinto Tarrés se quedó prendado de la hermosa muchacha cubana y Carmen, celosa, aguantó unos meses hasta que la echó de casa. Cubita no quiso volver a Cuba y se fue a Venezuela con un joven del pueblo.

¿Todavía viven en el pueblo los Tarrés?

Cuando echaron a Cubita del pueblo, Segismundo dejó de enviarles dinero. Jacinto y Carmen siguieron con los hilados, pero cuando murieron, sus hijos cerraron la fábrica y emigraron a Alemania.

Gracias a sus historias, he descubierto que llegaron al pueblo algunas mujeres cubanas que trastornaron la vida de unos y alegraron la de otros.

Montserrat miró su reloj de pulsera, vio que era tarde y se despidió. Marina también se levantó para volver a la biblioteca.