sabato 24 febbraio 2018

Il traghetto












Eravamo contenti di viaggiare verso un arcipelago, finalmente noi due da soli. Lasciavamo indietro stanchezza e tensioni. Non vedevamo l'ora di imbarcarci. Siamo partiti verso mezzogiorno, la giornata era tersa. Mentre attraversavamo l'Appennino campano sentivo, seduta leggendo un libro, un vento caldo quasi soprannaturale, che entrava dalle finestre del nostro veicolo e ci avvolgeva come una grande sciarpa. La sonnolenza mi rapiva e le parole che leggevo si perdevano lentamente in mezzo a quel ciclone caldo. Il furgone era piuttosto confortevole anche se non aveva l'aria condizionata. Non era molto grande ma ci bastava per i nostri bagagli, quelli che servivano per una quindicina di giorni. Siamo arrivati a Bari in anticipo e subito, con nostra sorpresa, siamo venuti a sapere che la nave aveva più di tre ore di ritardo.
Ci siamo seduti sulla terrazza di un piccolo bar e abbiamo preso delle bevande fredde. Il proprietario del locale, un giovane barese simpatico e chiacchierone di nome Rocco, si è offerto di vigilare la nostra macchina e nel frattempo di prepararci una cena a base di pasta, quindi noi siamo andati tranquillamente a visitare la città. Mentre camminavo accaldata per le viuzze del centro, tante donne e alcuni uomini erano seduti sulle sedie fuori dall'uscio delle loro case.
Tutte quelle persone su quelle sedie mi ricordavano la strada del paese della costa catalana dove avevo trascorso la mia infanzia. Ogni sera all'imbrunire le donne portavano fuori le sedie impagliate della cucina, per poter prendere il fresco e parlare con le vicine. Gli uomini dopo cena andavano al caffè a giocare a carte o a domino e quando rincasavano si sedevano con in bocca il sigaro, ormai spento, a chiacchiere con le donne del vicinato. Noi bambini correvamo e giocavamo per la strada o sulla piazza vicina. Nessuno ci controllava, era bello sentirsi liberi in quelle notti d'estate degli anni sessanta.
Abbiamo mangiato gli spaghetti al pomodoro e basilico che Rocco ci aveva preparato con cura, accarezzati da un vento di ponente, forse un po' insistente ma benefico, dopo la gran calura sofferta. Poi per ammazzare il tempo ci siamo sistemati con i nostri libri sulla terrazza dello stabilimento di Rocco, che lentamente è diventa la nostra nicchia, fatta da tavoli e sedie di plastica rossa. Abbiamo aspettato il traghetto, prima con piacere poi con stanchezza e noia, parlando e guardando il movimento del porto. Verso l'una di notte la nave non era ancora arrivata. Durante l'interminabile attesa abbiamo conosciuto una famiglia molisana, che viaggiava come noi in un camper. Esmeralda, la figlia adottiva, era una bambina di sei anni molto aperta e comunicativa. Subito abbiamo fatto amicizia. Al nostro gruppo si è unito Dario, un bambino milanese di dieci anni, che era un po' assonnato, perché si era alzato alle cinque del mattino; viaggiava insieme ai suoi genitori per andare a trovare i nonni materni in Albania. A un certo punto qualcuno, seduto su una sedia rossa accanto a noi, ci ha detto che il traghetto aveva accumulato molto ritardo, perché aveva dovuto aspettare i passeggeri di una nave che doveva partire da Brindisi, ma che era stata posta sotto sequestro perché avevano trovato nella stiva dei grandi quantitativi di droga.
C'era da disperarsi, avevamo sonno e guardando verso il buio orizzonte la nave non si vedeva. Verso le tre come per magia, la gente intorno a noi si è alzata e subito dopo abbiamo visto che le loro macchine si disponevano in fila sul molo, quindi anche noi ci siamo incamminati verso i lunghi serpenti di autovetture. Dopo un'ora è arrivato il bastimento e noi esausti e senza più forze abbiamo osservato e seguito incantati, come dei sonnambuli, tutti i movimenti del personale di porto nel far scendere le macchine e i numerosi camion da bordo. Quando stavamo per salire, abbiamo visto chiudersi di fronte a noi un grosso cancello di ferro. Il motivo l'abbiamo saputo dopo: in un camion, appena sbarcato, avevano trovato venti clandestini.
- Povera gente, non hanno potuto toccare la loro terra promessa, pensai.
I profughi appena sbarcati sono stati immediatamente rispediti nel paese da dove erano venuti. Hanno viaggiato chiusi in una stiva della nave, ci ha detto dopo un vecchio ufficiale di marina in pensione che abbiamo conosciuto durante la traversata. Eravamo tutti impazienti di salpare, nessuno pensava più ai clandestini. Noi volevamo solo cominciare le nostre vacanze e non ci rendevamo conto di quanto eravamo fortunati a differenza di quei poveracci. Le operazioni di sbarco e imbarco sono diventate infinite e la nave è partita quando cominciava ad albeggiare.
Avevamo un biglietto che ci permetteva di dormire dentro il furgone sul ponte della nave. Appena sdraiati, dalla stanchezza, ci siamo addormentati profondamente, ma ricordo una vaga sensazione di sentirmi cullata dalle onde. Il sole delle dieci ci ha svegliati e tutta la giornata l'abbiamo passata leggendo, parlando, mangiando e giocando a carte con Esmeralda e Dario.
Ogni tanto guadavo il mare, seduta in coperta. Esmeralda veniva in collo a me e mi chiedeva di raccontarle la storia del libro che stavo leggendo. Seduta sulle mie ginocchia, mentre ascoltava, cercava le mie braccia e le sistemava così bene che nasceva un tenero abbraccio. Stavo bene in mezzo a tutta quell'acqua e a quei bambini conosciuti da poco. Presto sarebbe finita quella lunga traversata, i clandestini sarebbero tornati in Afganistan, Esmeralda sarebbe andata in Turchia, Dario in Albania con i loro genitori e noi avremo cominciato il nostro viaggio verso il Peloponneso, pensai quasi nostalgica. Non potevo sapere che avremo avuto degli altri inconvenienti che avrebbero fatto diventare il nostro viaggio interminabile. Verso l'imbrunire il mare si è fatto grosso e di fronte a l'isola di Corfù, dove la nostra nave doveva fare una sosta, i mozzi non riuscivano a lanciare le corde per l'attracco. Con molta fatica, una fune e poi l'altra sono arrivate a destinazione, ma dopo poco la prima si è rotta.
La nave è tornata indietro e noi eravamo ancora più scoraggiati anche perché vedevamo i marinai nervosi e sfiniti. Dopo due tentativi il traghetto è riuscito ad attraccare. Non era ancora finita, dopo le operazioni di sbarco, mentre stavamo cominciando a lasciare il porto di Corfù, ci siamo fermati di nuovo. Qualcuno ci ha detto che l'ancora si era incagliata. Non potevamo crederci, era come se una calamita non ci lasciasse andare via. Dopo un tempo che ci è sembrato infinito la nave è ripartita; da quel momento in poi, come per miracolo, abbiamo ripreso le nostre forze e dimenticato tutte le nostre disavventure.
Alle dieci di sera, quando ormai era buio siamo arrivati a destinazione. Eravamo entrambi di buon umore mentre piantavamo la tenda in un campeggio non lontano dal porto. Ci siamo seduti a mangiare un boccone tra il mare e il cielo stellato e poi ci siamo abbracciati.
Il caldo notturno ci ha fatto dormire con la tenda aperta e la testa fuori. La mattina presto, il frinire delle cicale ci ha svegliati. La sorpresa più bella è venuta dopo scoprendo che quel piccolo e semplice campeggio era un paradiso. Le bianche piazzole terrazzate arrivavano fino a una baia, dove il mare era calmo come una grande piscina. Ci siamo tuffati nell'acqua cristallina e poi sdraiati sulla sabbia bianca.
Appena il sole ha cominciato a riscaldare un po' lui si è messo a leggere, all' ombra, seduto su  un piccolo scoglio piatto. Io sono rimasta a contemplare  il mare, ma un certo punto ho avuto un gran desiderio di abbracciare mio padre novantenne, che non vedevo da qualche mese e che non stava troppo bene di salute; ho preso un quaderno e una penna dello zaino e ho cominciato a scrivere una lettera, in cui gli raccontavo  la storia del traghetto.
 







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