giovedì 4 giugno 2015

Seduti nella sala d'attesa




Andare  all'aeroporto, queste tre semplici parole, ogni volta fanno riaffiorare in me delle vecchie storie.
Vorrei scrivere tutti quei ricordi, ma quando penso ai trasferimenti che ho fatto negli ultimi trent'anni da o verso l'aeroporto, le frasi mi nascono in tre lingue diverse. Ho deciso di scrivere in italiano, ma dovrete avere un po' di pazienza se leggendo questo racconto troverete parole in altre lingue.
Negli anni ottanta ho preso poche volte l'aereo, viaggiavo, dalla Toscana alla Catalogna, quasi sempre in treno, perché costava di meno e poi perché era più comodo partire direttamente da Firenze, anche se il viaggio era più lungo,  non dovevo  andare a Roma o a Milano,  dove   allora c'erano i voli per Barcelona.
Quando agli inizi degli anni novanta sono nati i miei due figli, ho cominciato a prendere l'aereo più spesso, soprattutto quando d'estate viaggiavo con i bambini, per andare a trovare i mie genitori nella costa catalana.
Sia mio padre che mia madre, che allora avevano una settantina d'anni, erano molto apprensivi per quanto riguardava le partenze, caratteristica che ho in parte ereditato. Sempre insistevano per venire a prendermi o ad accompagnarmi all'aeroporto. Ma dato che mio padre non era molto pratico nel guidare l'automobile in una grande città, cercava sempre di coinvolgere mio fratello. Lui faceva d'autista molto volentieri, ma a me dispiaceva rubargli del tempo tutte le volte.
Era sempre un tira e molla: io che volevo fare a tutti costi il tragitto, che separava il paese da Barcelona, in treno, per non disturbare nessuno e loro che non mi ascoltavano e finivano sempre per venire.
Ricordo che negli ultimi tempi, ho insistito così tanto nel voler andare in treno, che alla fine ho risparmiato mio fratello dall'incombenza. Ma i miei, soprattutto nei  nostri viaggi di ritorno, non si erano dati per vinti, ci davano un passaggio nella loro macchina fino alla piccola stazione ferroviaria del paese, parcheggiavano di fronte al mare e alla fine prendevano il treno insieme a noi. Con la scusa che dovevano aiutarmi con i bambini, riuscivano sempre nel loro intento di stare con noi fino all'ultimo.
Stavano bene seduti in sala d'attesa, altre volte andavamo a prendere qualcosa nel bar,  fino a quando dagli altoparlanti usciva fuori una voce maschile che annunciava:
- Señores pasajeros con destino a Roma, diríjanse a la puerta de embarque numero seis.
I congedi erano uno strazzio, ricordo che spesso mia madre piangeva mentre diceva:
- Pot ser sarà l'ùltima vegada que ens veurem, em puc morir un dia d'aquests.
Mio padre invece stava molto attento a gli annunci e ci obbligava a sbrigarci. Lasciavamo a metà il croissant o il bicchiere di suc de taronja, che prendevamo, più per passare il tempo che per dissetarci e a quel punto i bambini un po' si agitavano. A mio padre piaceva prendere le nostre borse e incamminarsi verso la porta d'imbarco. Credo fosse soddisfatto dell'aiuto che ci dava. Mia madre invece camminava lentamente, a volte sembrava che volesse trattenerci, come se in quei pochi minuti volesse riempirci delle attenzioni che  pensava le fossero  sfuggite.
Mi piace pensare che i miei genitori, oltre  che a voler  stare fino all'ultimo con noi,  volessero a tutti costi recarsi in aeroporto perché, seduti nella sala d'attesa, nel guardare quel via vai di persone con le valigie, si sentivano come se fossero loro a intraprendere il viaggio.
Un giorno mentre eravamo diretti alla caffetteria abbiamo incontrato due compaesani, marito e moglie. Mi colpirono perché erano bizzarri, non posso dire che fossero belli, ma avevano un sorriso smagliante. I loro indumenti erano normali, ma  avevano qualcosa di diverso, forse più colorati del solito. Il marito  indossava un basco nero che  lo faceva  diventare ancora più piccolo di statura. Andavano in Nuova Zelanda, ci dissero urlando. Il loro bagaglio era ben  sistemato sul carrello, formando una specie di torre,  sembrava che le imponenti valigie, che scivolavano leggere, trascinassero da sole i loro corpi tarchiati e tozzi. Erano i fruttivendoli del paese, lui aveva un orto vicino alle terre che coltivava mio padre. Nessuno avrebbe mai immaginato che quelle due persone così semplici, sedentari e grandi lavoratori, che non chiudevano mai il loro negozio nemmeno per andare in ferie, avessero in tarda età una passione segreta: quella di scoprire terre lontane.
Dopo quell'incontro mio padre e mia madre risero e scherzarono parlando dei due ortolani e quella volta mia madre non pianse.
Ieri mattina, ho portato mia figlia all'aeroporto di Firenze, da dove  è partita per Madrid, città dove abita da diversi anni.
Dovevamo fare una levataccia e quindi ho dormito male, ho aperto gli occhi prima che suonasse la sveglia. Mi sentivo lo stomaco strano, il buio era denso e il silenzio della notte ha fatto si  che i mie pensieri  fossero andati verso il passato, a una sera d'inverno di sette anni prima, nella casa di mio padre. Ero andata a fargli visita, perché era rimasto vedovo da poco e si era ostinato a vivere da solo nella vecchia casa. Era l'ultimo giorno che restavo con lui, la mattina seguente partivo e avrei dovuto prendere, prima il treno per Barcelona e poi l'aereo per Pisa. Lui voleva a tutti costi accompagnarmi alla stazione ferroviaria e mi diceva:
- Et vull portar amb el meu cotxe a la estaciò. No m'importa que sigui de matinada i encara negra nit!
Io lo ringraziavo e gli dicevo che non era necessario, che la stazione distava solo dieci minuti piedi, insistevo e insistevo, ma lui niente. Alla fine, non so come ho fatto, ma l'ho convinto a non alzarsi e a congedarsi da me quella stessa sera.
La mattina, ancora buio, sono uscita di casa prima del previsto, perché mi ero svegliata troppo presto. Lui non se ne era accorto, dato che la sua camera si trovava nel piano superiore, quindi quando si è alzato non ha trovato nessuno in casa. Poi, mi raccontò al telefono il giorno dopo, era andato in piazza a cercarmi. Poverino, non avevo capito quanto lui desiderasse portarmi alla stazione.
Mio padre, anche se non me l'aveva detto, quella mattina credo pensasse che sarebbe stata l'ultima volta che mi poteva dare un passaggio, prima che gli ritirassero la patente.
In effetti dopo qualche mese, ebbe un ictus e non poté più guidare. Dopo la sua morte, avvenuta poco dopo, abbiamo conservato la sua vecchia macchina, che viene usata da noi quando d'estate trascorriamo le vacanze nel paese. Ogni volta che vado a prendere o a portare qualcuno all'aeroporto, sorrido e penso a quanto piaceva ai miei genitori sedersi nella sala d'attesa e guardarsi intorno.















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