mercoledì 3 luglio 2013

A braccetto con la felicità















L'anno scorso, in un pomeriggio caldo di fine estate, mentre davo una occhiata ai libri, esposti nella piccola libreria del mio paese, della costa catalana, mi è caduto l'occhio su un titolo di un romanzo di una scrittrice spagnola un po' bizzarro:
Los estados carenciales1.
Comprai il libro subito e lo cominciai quella stessa notte. Ogni personaggio mi si era avvicinato lentamente. Forse il fatto che ognuno, alla sua maniera, cercasse ostinatamente la felicità, senza riconoscere che l'avevano a portata di mano, mi aveva molto colpito.
Il personaggio principale, impartiva lezioni di felicità in una Accademia che aveva aperto da poco, perché anche lui era in cerca di felicità. Con ottimismo sperava che, aiutando persone che si credevano infelici, forse si sarebbe salvato dal suo disastro coniugale.
Mi colpì molto la frase che il maestro pronunciò:
- Si può andare a braccetto con la felicità perché è a portata di mano di tutti noi.
e poi continuò:
- Dovete essere felici per il solo fatto di essere nati sulla Terra, un piccolo pianeta nella periferia della nostra galassia, che possiede un'atmosfera e ha molta acqua allo stato liquido. Avreste potuto trovarvi in qualsiasi punto del pianeta, invece avete avuto la fortuna di nascere in Europa, di avere un lavoro e la pelle chiara.
Da allora ogni mattina mentre mi facevo la doccia anch'io pensavo a quanto ero fortunata con tutto quello che avevo, soprattutto in quel momento con quell'acqua calda e benefica.
Per una serie di coincidenze, in quei giorni, sono capitata in un centro di ascolto. Sono arrivata con un quaderno per prendere appunti. Avevo capito che un esperto attraverso delle conferenze ci avrebbe spiegato come stare bene con se stessi e con gli altri, dato che questa era la tematica degli incontri. Invece mi sono trovata a far parte di un cerchio formato da persone sconosciute. Abbiamo dovuto parlare di noi, guidati da uno specialista che conduceva il lavoro di gruppo.
Non avevo mai percepito tanta infelicità o meglio non mi era mai capitato di stare con tante persone che erano o si credevano sventurate.
La prima a parlare è stata una fornaia grassoccia, che ci ha detto che aveva un fratello tossicodipendente. Dopo ha preso la parola un professore di Matematica, che ci ha fatto sapere che sentiva un gran disagio in classe davanti alla scolaresca ed era preso dall'ansia ogni mattina quando entrava a scuola. Una donna che aveva due bambini piccoli era disperata, dato che non riusciva a vivere la propria vita. Solo vivo quella degli altri, diceva. Dopo, un bell'uomo, molto elegante ha cominciato a dire che si sentiva fallito sia nella vita che nel suo lavoro di architetto da quando si era separato dalla moglie. I suoi discorsi logorroici sprigionavano molta solitudine, ho pensato. Accanto a me c'era una ragazza, era la più giovane del gruppo, ma era la più triste, diceva che non aveva speranze e che era delusa di tutto e di tutti.
Quando è toccato parlare a me, ho riferito quello che diceva il protagonista del libro sulla felicità.
Quasi tutti mi hanno guardata con una strana espressione, forse non riprovevole, ma indolente verso il mio discorso, che per loro era troppo banale.
La volta successiva però, la ragazza mi si è avvicinata e mi ha ringraziato per le parole sulla felicità che avevo detto, infine mi ha sussurrato che anche lei era meno infelice quando riusciva ad apprezzare le poche cose buone che aveva e che molti sulla Terra non avrebbero mai raggiunto.
Uscendo dal centro ascolto la ragazza mi ha invitato a prendere una tazza di tè in un bar vicino.
Mi ha raccontato che si era sposata molto giovane con un uomo più grande di lei, amico di suo padre, per poter abbandonare il piccolo paesino del sud dove viveva con la sua famiglia. Subito mi ha fatto partecipe della sua triste storia di violenze e maltrattamenti da parte dal geloso marito tutte le volte che rientrava a casa ubriaco. Dopo pochi mesi aveva scoperto di essere incinta, all'inizio non voleva quella gravidanza, ma col passare dei giorni si era convinta di tenere il bambino, nonostante suo marito, avesse ricominciato a maltrattarla. Mentre lei parlava mi è venuta in mente Anita, la llevadora2 del mio paese.
Anita, quando ero piccola, veniva tutti giorni a casa nostra, per fare una puntura a mia madre. Seduta in cucina sentivo raccontare le storie di persone infelici che aveva incontrato durante la guerra civile, quando lei e suo marito vivevano in Andalusia.  
A volte era tale la loro miseria, le loro pene, e tanta la disgrazia in cui erano cadute, che non avevano nemmeno la forza di sentirsi sfortunate, diceva.
La guerra civil era cominciata da molti mesi e non si vedeva la fine. La llevadora lavorava in un piccolo ospedale, in parte distrutto dalle bombe, che si trovava nella zona roja3, difesa dai repubblicani. Doveva far nascere i figli di donne sfortunate, che avevano perso tutto, il marito, la casa, la famiglia, donne che a malapena volevano continuare a vivere.
Perché c'era questa guerra tra fratelli? si chiedeva Anita.
La gente diceva che se avessero vinto i repubblicani, ci sarebbe stata più libertà e giustizia. Molti speravano che dopo la vittoria tutti sarebbero diventati uguali.
Non ci saranno ne ricchi, ricchi, né poveri, poveri, nella nuova Spagna, si augurava Anita.
Era un bell'ideale da perseguire, ma ogni giorno le cose peggioravano. Los nancionales4 bombardavano i centri abitati e fucilavano innocenti. Il bando republicano era sempre più diviso e i begli ideali non sempre erano chiari a tutti. Alcuni dirigenti rojos, soprattutto quelli più estremisti, condannavano la Chiesa, la ritenevano uno dei mali della Spagna. Alcuni esaltati volevano sterminare il clero, facendo ammazzare preti, monache e frati.
Dopo alcuni giorni, Anita sentì alla radio che erano state incendiate molte chiese e alcuni conventi.
La guerra era ingiusta, sempre erano i più deboli a farne le spese, si disse Anita.
Le settimane passavano e la pace era sempre più lontana. Un giorno di novembre, non molto freddo, la llevadora, fu impressionata dall'arrivo di una giovane monaca, suor Eulalia, che si presentò all'ospedale con una gran emorragia. Era incinta di quasi otto mesi. Era stata violentata da un miliziano atroce, spietato e fortemente anticlericale, ma soprattutto ubriaco di infelicità e di vendetta, che aveva agito di nascosto dai suoi superiori. Da allora suor Eulalia si era rifugiata nelle campagne vicino al monastero incendiato, con la madre badessa e una contadina che prima lavorava nel loro convento. Era la contadina a cercare il cibo e un tetto dove dormire ogni giorno. Ma la madre badessa era molto anziana e non superò l'autunno. Da quel giorno anche suor Eulalia volle morire.
La giovane suora piangeva, era smarrita. Anita l'accarezzò, la lavò e le disse che il bambino era ancora vivo. Suor Eulalia si calmò grazie alle mani dolci di Anita.
La llevadora raccontò a suor Eulalia, che suo marito Anselmo era finito nel frente del Ebro5, ma che adesso era fuori pericolo, in una caserma di Zaragoza, grazie al suo mestiere. Anselmo era stato sempre il barbiere del paese. In fine le disse che potevano stare tutti insieme nella loro casa.
Eulalia aprì gli occhi, guardò Anita e capì che era stata fortunata, a trovare quella donna. Per la prima volta dopo tanto tempo, volle ascoltare nel suo grembo, le piccole e dolci pedate di suo figlio.
Dopo molte ore suor Eulalia, diede alla luce un maschio, che chiamarono Agustìn. Il parto fu molto lungo e travagliato.
Il bambino aveva tanta voglia di nascere, che all'ultimo momento, quando il collo dell'utero della madre era quasi totalmente dilatato, conficcò il suo volto nel canale che lo portava verso la luce.
- Questo bambino si presenta di faccia, sarà un parto difficile, devo fare qualcosa, si disse Anita.
La suorina si mise a quattro zampe, seguendo il proprio istinto e soprattutto i consigli di Anita che le diceva:
- arrodìllate, arrodìllate6
La testa del nascituro uscì miracolosamente.
Quella nascita aveva fatto capire a suor Eulalia che a volte la felicità, quando sembra impossibile da raggiungere è a portata di mano, basta prenderla a braccetto. 
La ragazza aveva ascoltato con molto interesse la storia di Anita, poi mi aveva confessato che ancora non aveva informato nessuno della sua gravidanza e che voleva abbandonare il marito perché aveva una gran paura di perdere il bambino.
L'ho ringraziata per aver avuto fiducia in me e le ho consigliato di confidarsi con sua madre che forse era l'unica persona che la poteva aiutare.
All'improvviso si era alzata e allontanandosi verso la porta, si è girata e si è scusata dicendomi che doveva andare via.
- Dove vai così in fretta, le ho detto.
- Vado a prendere la felicità prima che scappi via.
La ragazza non era tornata al centro di ascolto e non ho saputo più niente di lei, ma a volte l'immagino che passeggia per le strade a braccetto con la felicità
Firenze marzo 2011
1 Mancanze affettive
2 levatrice
3 Rossa, zona governata dalla sinistra (comunisti, socialisti , repubblicani e anarchici)
4 I conservatori di destra, guidati dal generale Francisco Franco
5 Fronte nella battaglia del fiume Ebro
6 Inginocchiati, inginocchiati

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