venerdì 1 giugno 2012

Giacomo e la lentezza del virus













Quel giorno non ho lavorato quindi, ho dedicato tutta la mattinata, prima alla casa e poi a scrivere.
Mentre mi dirigevo in macchina al supermercato per fare la spesa, ho pensato a Giacomo, nostro primo figlio. Sarà stata una canzone sentita alla radio quella che mi ha fatto ricordare il suo magro corpicino?
Mi sentivo raffreddata. Per me questo stato catarroso, a volte poteva essere un bene, perché il virus mi faceva rallentare tutte le azioni. Pensavo, davanti alla bilancia, tra la pesata dei pomodorini e quella del cavolfiore, che appena sarei arrivata a casa, avrei scritto la storia di Giacomo. Piano piano ho scaricato la spesa e poi seduta nella scrivania ho preparato le lezioni per il giorno dopo.
Tra una cosa e l'altra sono arrivata all'ora di pranzo, senza aver scritto niente. La lentezza virale mi aveva fatto crogiolare sui mie libri.
Da quando i nostri figli ventenni erano lontani dall'Italia per studiare, pranzavo sempre da sola, dato che U. mangiava tutti giorni nel posto di lavoro. Mi piaceva assaporare una bella insalata mista, mentre ascoltavo la radio o guardavo il telegiornale. Questa sensazione di libertà e il ricordo di Giacomo mi hanno riportato a un giorno invernale di qualche decennio prima, seduta sul divano verde della nostra prima casa.
Avevo quasi trent'anni quando un pomeriggio ho sentito la voglia di avere un figlio.
Appena è arrivato U. a casa dal lavoro l'ho abbracciato e gli ho detto:
- Sarebbe bello avere un bambino
- Mi piacerebbe essere padre, ma forse aspettare un po' di tempo sarebbe meglio.
- Adesso sento un gran desiderio di essere madre, cosa che non avevo percepivo mai prima, e   penso  che sia arrivato il momento di avere un figlio.
- Io ho un lavoro fisso, ma tu non sei assicurata nella scuola privata dove lavori. Quando sapranno   che sei incinta forse ti manderanno via, diceva U.
- Le cose si sistemeranno. Posso continuare a impartire lezioni private a casa.
- Come farai a insegnare con un bambino tra le braccia?
- Non essere buffo, ci siamo sempre arrangiati, ce la caveremo, dicevo io.
- Ancora non abbiamo una casa nostra, forse dobbiamo aspettare un altro po', ribadiva lui.
Eravamo in affitto in un bel monolocale, posto al pian terreno di un palazzo antico, che ci piaceva molto, ma nel quale, aveva ragione U., non c'era posto per un bambino.
Un giorno di primavera questa discussione l'abbiamo fatto con un nostro caro amico. Quest'ultimo, con la sua mentalità troppo maschile e un po' egoista, mi voleva persuadere a tutti costi che i figli portano solo problemi.
U. era indeciso sul momento di procreare, ma voleva avere due o tre figli, diceva. Invece l'amico era fermamente convinto di non volere che la metà del suo DNA facesse parte di un nuovo essere.
Io invece sentivo, ogni giorno che passava, sempre più forte il desiderio di maternità.
Dopo alcuni mesi da quella lunga discussione, è rimasta incinta la moglie del nostro amico. Lui era infuriato, ci diceva che era stato un grosso errore quella gravidanza, ma che quello sarebbe stato il suo primo e ultimo figlio. Lui ha mantenuto la parola, ma qualcosa si è rotto nella coppia, perché dopo pochi anni dalla nascita della loro figlia si sono separati.
Arrivate le vacanze di Natale andammo a trovare i miei, nel paese dove abitano vicino a Barcellona, dopo abbiamo proseguito il viaggio verso Sud con mio fratello e sua moglie. A Siviglia ho capito di aspettare un figlio.
Avrei voluto, godere quel momento nell'intimità con U. invece eravamo sempre in compagnia e il viaggio era molto faticoso: attraversavamo l'Andalusia con un vecchio furgone. A Siviglia l'appartamento, prestato da una amica di mio fratello, era molto piccolo e molto freddo. Mia cognata voleva andare da una parte e U. invece d'altra, insomma tutto era un po' stressante.
In quei giorni avevo notato, nel bagno di un locale gremito di gente, di avere delle piccole perdite di sangue.
La sera abbracciata a U., mentre dormiva, parlavo con Lui, il piccolo, che sette mesi dopo abbiamo chiamato Giacomo, dicendogli:
- No fugis, ara que has arrivat. Resisteix, no ens deixis, que ja t'estimem molt1
Percepivo che qualcosa non andava bene, dato che mi sentivo strana e avevo sempre mal di testa. Ricordo che il giorno dell'ultimo dell'anno, con i coriandoli nei capelli, in un locale del centro di Siviglia, nonostante il malessere fisico, ero felice pensando alla nuova vita che si faceva strada, ma soprattutto vedendo U. raggiante di allegria.
Giacomo non ci ha mai lasciati a Siviglia, ha tenuto duro, ed è rimasto nel mio grembo fino alla fine di luglio. Dopo la sua nascita ha resistito nove giorni, nell'incubatrice dell'ospedale pediatrico di Padova, dove ci siamo recati, nel momento in cui dottori avevano avuto i sospetti che il feto avesse un'anomalia cromosomica.
Era piccolo, ma bello.  Aveva una trisomia 18, il che significava  che le sue cellule possedevano un cromosoma in più e questo provocava,  tra le altre disfunzioni, una grave malformazione cardiaca. Pesava solo un chilo e mezzo. 
Ho pochi ricordi di quel magro corpicino: le impronte dei suoi piedini, il suo braccialetto con inciso il numero di riconoscimento, il suo gruppo sanguigno, la fotografia dei suoi cromosomi, il suo certificato di morte e la sua lapide nel cimitero di Poppi.
La morte di Giacomo è stato per noi il primo gran dolore. Ma in quei momento non potevamo immaginare che la perdita del nostro primo figlio ci avrebbe regalato una visione migliore della vita.
U. mi è stato sempre vicino, ha pianto insieme a me e ha saputo aiutarmi a superare i momenti più difficili, dimostrandomi il suo amore.
Per riprenderci ed elaborare serenamente il nostro lutto abbiamo deciso di recarci al mio paese, allontanandoci da Firenze, dove molti conoscenti, ignari dell'accaduto, vedendomi da sola, senza carrozzina, mi chiedevano:
- Dove hai lasciato il bambino?
- E' morto, dicevo.
In paese, mia madre, mia sorella, mia zia, le cugine e le amiche mi consolavano dicendomi che quella disgrazia era capitata a molte donne. Ricordo che nelle ore di calura, zia Margherita, seduta con me in cucina, mentre tutti dormivano la siesta, mi ha raccontato alcune storie di donne che avevano perso il loro primo figlio, ma quella che mi ha colpito di più è stata la storia di Anita, la llevadora2,
Mia zia cominciò dicendo cheAnita  un giorno  aveva sentito  un forte desiderio di avere un figlio.
Era seduta a prendere il fresco sotto un ulivo con Anselmo, suo marito, vicino a un paesino della provincia di Jaen, dove, prima che scoppiasse la guerra civile, erano andati ad abitare.
Aveva ventisei anni e tutte le sue coetanee a quell'età avevano due o tre bambini, ma lei, fino a quel giorno, desiderava solamente aiutare le donne a partorire e pensava fermamente di non voler procreare durante quel periodo di tumulti e lotte politiche.
Perché adesso sentiva quel forte desiderio di tenere stretto un figlio tra le braccia? Era un sentimento nuovo e quasi se ne vergognava, dato che i tempi erano così difficili che la gente stentava a procurarsi i mezzi per il proprio sostentamento. 
- Mettere al mondo un figlio forse è da incoscienti, ma adesso sento una gran voglia di maternità, disse Anita a suo caro marito.
- Sarebbe meglio aspettare tempi migliori, ma sono contento di questo tuo nuovo desiderio. È da parecchio tempo che ci penso, a un figlio, ma ti vedevo così presa dal tuo lavoro che non volevo che ti sentissi obbligata a darmi un erede, le rispose Anselmo.
- Mi piacerebbe che nostro figlio avesse la testa rotonda ed elegante come la tua, la tua bontà e la tua voglia di vivere, gli sussurrò lei all'orecchio.
Cominciava ad imbrunire, quando Anita sentì un brivido d'emozione, forse perché era felice di aver parlato con Anselmo e di aver percepito che lui l'amava.
Dopo qualche mese capì di essere incinta, non per questo lasciò il duro lavoro, che continuò a svolgere con passione. Intanto le truppe del Generale Franco, provenienti dalla colonie spagnole del Marocco, erano sbarcate nella penisola e avevano preso alcune città, tra le quali Siviglia e Granada, nell'Andalusia occidentale. Nell'ospedale, dove Anita  seguiva i parti più difficili, un giorno arrivarono delle milizie franchiste e occuparono con la forza alcuni padiglioni.  La  levatrici voleva aiutare una donna incinta di sette mesi, la quale era stata ricoverata quella mattina per un distacco della placenta. I militari avevano ordini di sgomberare il reparto per farci un accampamento. Mentre Anita discuteva con i miliziani, sentì uno scoppio.
Quando aprì gli occhi, coperta da polvere e macerie, vide, in mezzo a una pozza di sangue, la donna che aveva voluto salvare. Anche lei aveva perso sangue e appena riusciva a mettersi in piedi.
Presto sospettò che il nascituro stesse soffrendo, dato che non percepiva più i piccoli calci che lui solleva lanciare a tutte le ore, come il picchiettio leggero di chi bussa alla porta.
Era debole e non riusciva quasi a camminare, ma appoggiandosi alle spalle di una donna riuscì ad arrivare dal vecchio dottore.
Il medico visitandola vide che c'era una forte sofferenza fetale e che bisognava effettuare rapidamente un taglio cesareo.
Il corpicino del bambino pesava poco, ma era bello  e  Anita notò subito la sua testa rotonda ed elegante come quella di Anselmo. Era nato vivo, ma dopo poche ore morì.
Lavarono e vestirono il corpo di quella povera creatura e lo misero in una scatola di cartone.
L'indomani Anita sentì che usciva il latte dai suoi capezzoli. Sempre, dopo i parti, provava una gran gioia vedendo i seni gonfi delle partoriente, che le sembravano delle morbide caciotte, ma adesso guardando i suoi sentiva un gran dolore.
Senza tregua si chiedeva:
- Perché è dovuto succedere a noi?
- Perché non ho voluto aspettare un po' di tempo prima di avere un figlio, come diceva Anselmo?
- La colpa è stata tutta mia.
Ben presto scoprì che molti capelli le cadevano e questo la faceva piangere dal dispiacere.
Anselmo la sera la portava a fare delle passeggiate, parlandole, con entusiasmo, del loro futuro.
Dopo qualche giorno, tornò all'ospedale e piano piano il lavoro la rasserenò.
Anita, dopo quella disgrazia, sentì che amava profondamente quell’uomo buono.
La storia di Anita, raccontata da zia Margarita, contribuì a restituirmi la speranza e  soprattutto la voglia di ricominciare.
La lentezza che mi aveva procurato il virus mi aveva permesso di ricordare la storia della breve vita di Giacomo e di apprezzare che la morte prematura di nostro figlio ci aveva uniti saldamente.
Dovevo ringraziare Giacomo, quel figlio che avevo tanto desiderato.

1 Non fuggire, ora che sei arrivato. Non lasciarci che già abbiamo cominciato ad amarti
2 Levatrice

4 commenti:

  1. è molto triste e coraggioso!
    luisa

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  2. Quando permetti agli altri di leggere il racconto della tua vita questa diventa parte della vita degli altri.
    Giancarlo

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    1. Grazie per seguire il mio blog. Penso che condividere le proprie esperienze possa servire anche agli altri.

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